La cura dell’umano, di Michele Ciccarelli

Il mondo contemporaneo sembra ossessionato dalla cura di sé, anche se il sé corrisponde sempre più spesso all’immagine che ognuno nutre di se stesso e a ciò che si desidera essere. L’individualismo imperante, infatti, riguarda anche l’ambito della cura; per cui, più che curare si è interessati soprattutto a curarsi, a tenersi in forma e in salute. Tutto si concentra sul nostro corpo e sulle sensazioni che ci provengono dalla nostra psiche. Del resto, è a un corpo sano che la società deve il suo benessere e il suo progresso, mentre la malattia è fondamentalmente un fallimento, un incidente di percorso che, possibilmente, bisogna subito superare.

Per dirla con Michel Foucault, ormai «la salute sostituisce la salvezza» (La nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico), anche perché la medicina richiede dal paziente comune un atto di fede che volentieri non prende in considerazione i margini di incertezza e le variabili che rientrano nell’attività di cura.

In realtà, sebbene facciamo ricorso continuo alla cura di noi stessi, aumentando il nostro benessere con la pratica di sport, palestra, fitness e diete dimagranti, non ci percepiamo naturalmente come persone bisognose di cura, perché solo in quanto individui sani noi riusciamo a progettare la nostra vita, organizzare il nostro tempo e scegliere il nostro lavoro. Forse uno dei motivi principali della difficoltà a considerare l’uomo nella sua fragilità esistenziale e, di conseguenza, bisognoso di cura è il fatto che curare qualcuno o curare se stessi è un’attività che non è mai definitiva, è un lavoro che, come afferma Boris Groys, «resta sempre incompiuto, e pertanto non può che essere profondamente frustrante» (La filosofia della cura). Tuttavia, la cura è un’attività indispensabile alla sopravvivenza della società, ma anche alla conservazione della verità sull’uomo stesso. Non a caso, infatti, la condizione di “paziente” viene attribuita da Socrate a colui che, come una partoriente cerca la verità e la dà alla luce, mentre Socrate stesso, come filosofo-levatrice, è colui che cura, aiutando a partorire e a distinguere la verità dalla sua immagine fuorviante (cf. Platone, Teeteto). Ma per riconoscere e contemplare la verità c’è bisogno che tutto il corpo dell’uomo si sposti e dall’interno della parete della caverna si giri – a causa della sua debolezza è necessario che venga spostato con forza- e rivolga lo sguardo verso l’esterno (cf. Platone, Repubblica VII, 515c-516a).

Se da una parte, però, sulla salute dell’individuo si poggia il futuro della società, dall’altra questo legame può dare origine ad un concetto selettivo di società del benessere, dove l’economia oppure l’immagine di vita felice che ci si è virtualmente costruiti, per esempio, può dire l’ultima decisiva parola sulla possibilità di vita o di morte di un individuo bisognoso di cura. La responsabilità collettiva della cura come imperativo umano viene così scavalcata da istanze individualistiche della società di massa che abbandona l’individuo a se stesso, isolandolo nel suo stato di fragilità esistenziale. L’accanimento a volte maniacale per la cura di se stessi rende sbiadito e lontano il mondo che ci circonda, anche quello dei legami parentali. In una società sempre più individualista c’è il rischio concreto di perdere il senso dell’altro e, quindi, il senso del vivere insieme, della vita comune, assumendo i rischi di quella «vita pubblica» di cui parlava Hanna Arendt e che ella intendeva come spazio spirituale dal quale recuperare il senso della humanitas latina da rendere come dono universale.

Hannah Arendt, in occasione del discorso tenuto per la consegna a Karl Jaspers del premio della pace deo librai tedeschi, parla dello spazio pubblico in cui si manifesta e si esprime la persona umana. Questo spazio pubblico, per la Arendt, è anche spazio spirituale e l’associa a quello che i Romani definivano con il termine humanitas. Poi continua dicendo: «L’humanitas non si raggiunge mai in solitudine, né si ottiene grazie ad un’opera consegnata nelle mani del pubblico. La raggiungerà soltanto colui che sarà capace di esporre la sua vita e la sua persona ai “rischi della vita pubblica” e che si assumerà il rischio di mostrare qualcosa che non è “soggettivo” e che, per questa stessa ragione, non potrà riconoscere né controllare. I “rischi della vita pubblica”, attraverso i quali si conquista l’humanitas, diverranno così un dono per l’umanità» (H. ARENDT, L’umanità in tempi bui). Il discorso confluirà poi in un libro dove la Arendt raccoglie riflessioni su alcune personalità di intellettuali che, durante il Novecento, si sono distinti per aver tenuta alta la fiaccola dell’umanità nei tempi bui. Il titolo originale del libro, infatti, è «Men in Dark Times», ma che forse il titolo italiano, L’umanità in tempi bui, rende meglio lo spirito di pensatori che, di fronte all’orrore che si prospettava davanti a loro, non si sono arresi al pessimismo e hanno continuato a nutrire ottimismo per l’umanità.

L’individuo nella sua unicità non è più considerato come un essere in relazione, cioè una persona, ma come un soggetto autoreferenziale. L’individuo si giustifica da sé ed è concepito come assoluto, letteralmente absolutus, svincolato da ogni rapporto con gli altri. La condizione di questa sua separatezza ci ha portato a misconoscere la natura originariamente comunitaria dell’uomo.

In questa solitudine in cui l’uomo oggi esercita la sua libertà, egli pensa di avere un solo imperativo categorico a cui rispondere: curare se stesso, accrescere il proprio benessere e ricercarlo in ogni sua attività e ad ogni costo. Un egoismo di massa che fa vacillare la struttura relazionale della società, che rischia così di essere frantumata in singole monadi che sperimentano un vincolo societario solo se si uniscono per rivendicare qualcosa a colpi di slogan che unificano e che, nello stesso tempo, omologano, semplificano e allontanano dalla realtà degli esseri umani. Un mondo che va in frantumi ha bisogno di persone che facciano proprio il motto “I care” di Don Milani e lo applichino in tutte le forme possibili in una società cangiante ormai ad un ritmo frenetico, dove il rischio che molti restino indietro e scompaiano all’orizzonte è molto alto.

Michele Ciccarelli, docente scuola superiore e docente ISSR Capua, Caserta

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