Israeliani e palestinesi oltre le fedi radicalizzate, di Sergio Fabbrini

Il conflitto in Medio Oriente non potrà essere risolto, fino a quando verrà vissuto come uno scontro tra due entità omogenee, Israele e Palestina, per di più caratterizzate da un’identità religiosa piuttosto che politica. Sia all’interno dell’uno che dell’altra, vi sono invece posizioni che contrastano tale rappresentazione e che andrebbero sostenute per avviare un percorso di conciliazione. Vediamo.
Israele non è la sua destra religiosa, anche se quest’ultima è diventata sempre più influente. Nel governo formatosi il 29 dicembre 2022, guidato da Benjamin Netanyahu e costituito di 13 partiti, almeno cinque rappresentavano l’estrema destra religiosa, per la quale non esiste una questione palestinese. «Guidata dalla Bibbia», la destra religiosa ha promosso, finanziato e protetto l’insediamento di colonie “ebraiche” (come le chiama) nei territori della West Bank occupati militarmente da Israele dopo la guerra del 1967, territori che Israele si era poi impegnato a restituire all’Autorità nazionale palestinese (Anp) con i secondi accordi di Oslo del 1995.
Nonostante l’impegno allora preso, la destra religiosa israeliana ha fatto di tutto affinché quell’impegno non venisse rispettato. Nella West Bank, secondo WestBankJewishPopulationStats.com, la popolazione dei coloni, al 1° gennaio di quest’anno, era di 502.991 persone, con una crescita del 16% dal 1° gennaio 2018, cui vanno aggiunti oltre 200.000 coloni che si sono installati a Gerusalemme Est (assegnata anch’essa ai palestinesi ad Oslo nel 1995). Il risultato è la frammentazione della West Bank, la sua militarizzazione per proteggere i coloni, l’estensione dell’autorità israeliana sulla popolazione palestinese (di tre milioni di persone). Questa politica, però, è stata e continua ad essere contestata da settori consistenti della società israeliana, che hanno denunciato il nesso autoritario tra negazione dei diritti dei palestinesi (all’esterno) e indebolimento dello stato di diritto (all’interno). Centinaia di migliaia di israeliani sono scesi in piazza, nei mesi scorsi, per contestare la contro-riforma della giustizia avanzata dal governo Netanyahu. Studiosi israeliani come Yuval Noah Harari hanno accusato i governi del loro Paese di perseguire una politica di apartheid ai danni dei palestinesi nella West Bank e a Gerusalemme est, politica frutto delle “fantasie bibliche” di fondamentalisti religiosi ossessionati “dalle idee della supremazia ebraica”. Dunque, non c’è un solo Israele, come i suoi critici pensano.
Anche la Palestina non è la sua destra religiosa (Hamas). Quest’ultima non riconosce l’esistenza di Israele, specularmente al disconoscimento dei diritti dei palestinesi da parte di quella ebraica. Eppure, Hamas è tutt’altro che il rappresentante del popolo palestinese. Su Foreign Affairs della settimana scorsa, Amaney Jamal e Michaele Robbins hanno riportato i risultati di un sondaggio (di Arab Barometer che ha coinvolto 1.189 palestinesi, sia della West Bank che di Gaza, tra il 28 settembre e l’8 ottobre scorsi), in base al quale il governo di Hamas a Gaza godeva del sostegno del 29% dei palestinesi della Striscia, mentre il 67% di questi ultimi dichiaravano di avere “nessuna o poca fiducia” nei suoi confronti. Mentre Hamas ha fatto della distruzione di Israele la sua missione sin da quando si è costituita (nel 1987), la maggioranza degli abitanti di Gaza e della West Bank si è dichiarata invece favorevole alla soluzione dei due stati. Quando quella soluzione fu rifiutata (il 23 dicembre 2000) per le incertezze di Yasser Arafat, furono intellettuali palestinesi come Edward Said e Rashid Khalidi a criticare quest’ultimo per la mancanza di coraggio a trovare un compromesso sulla questione della Nabka (l’esodo forzato di 700.000 palestinesi dalle loro case in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948). Dopo tutto, ha scritto recentemente Bo Rothstein (scienziato politico svedese), il dramma dei rifugiati (durante e dopo la guerra) non ha riguardato solamente i palestinesi. Più di mezzo milione di finlandesi dovettero lasciare la Carelia nel 1944 perché conquistata dai sovietici, più di un milione di rumeni furono espulsi dalla Bulgaria nel 1941, più di un milione di polacchi furono obbligati ad andarsene dalle aree finite sotto il controllo sovietico nel 1945, più di 300.00 italiani furono costretti a lasciare l’Istria e la Dalmazia dopo il 1943, almeno 12 milioni di tedeschi furono espulsi da territori divenuti parte della Polonia e della (allora) Cecoslovacchia nel 1945-46. Nessuna di queste catastrofi ha prodotto la “sacralizzazione” del diritto al ritorno come è avvenuto in Palestina, sacralizzazione che rese poi impossibile la conclusione dell’accordo del 23 dicembre 2000. Eppure, seppure indebolita, l’Autorità nazionale palestinese continua a sostenere la soluzione dei due stati così come fu delineata ad Oslo nel 1995 e la maggioranza dei palestinesi, ha ricordato recentemente Salam Fayyad (primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese tra il 2007 e il 2013), vorrebbe che i due stati fossero collegati da un mercato comune. Dunque, non c’è una sola Palestina, come i suoi critici pensano.
Insomma, il conflitto israelo-palestinese deve essere liberato dalle semplificazioni, fonte della sua radicalizzazione religiosa. Con la conseguenza che il messianismo dell’una e dell’altra parte rendono impossibile trovare una soluzione di compromesso. Vanno invece rafforzate, all’interno di israeliani e palestinesi, le posizioni che riconoscono la realtà, consapevoli che la ricerca della giustizia assoluta produce sempre mali assoluti.

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