Il “Piano Mattei” che parla all’Africa non può ignorare che cosa la umilia, di Giulio Albanese

Per coloro che amano le Afriche (usiamo il plurale perché è un continente tre volte l’Europa) trovarle in prima pagina sui giornali fa piacere. Il merito in questo caso è del nostro governo che ha organizzato in questi giorni a Roma il vertice Italia-Africa. D’altronde, proprio parafrasando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «questa è la naturale vocazione dell’Italia: un ponte tra l’Africa e l’Europa».
Nelle intenzioni di Palazzo Chigi il cosiddetto “Piano Mattei per l’Africa” dovrebbe costituire un modello di cooperazione «da pari a pari, lontano da qualsiasi tentazione predatoria, ma anche da quell’impostazione “caritatevole” nell’approccio con l’Africa che mal si concilia con le sue straordinarie potenzialità di sviluppo».
Detto questo, è decisamente prematuro esprimere un giudizio, non foss’altro perché al di là delle buone intenzioni non sono ancora chiari i veri contenuti di quella che Meloni ha definito «una piattaforma programmatica aperta alla condivisione e alla collaborazione con le Nazioni africane, sia nella fase di definizione sia in quella di attuazione dei singoli progetti». È evidente che da parte italiana vi sia l’esigenza di garantire l’approvvigionamento energetico al nostro Paese, unitamente alla volontà di trovare una risposta al tema della mobilità umana, un fenomeno sistemico e non emergenziale come spesso è stato raccontato nei circoli della politica nostrana.
Rimane il fatto che il Piano Mattei – sono testuali parole di Meloni – « può contare su 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie: circa 3 miliardi dal fondo italiano per il clima e 2,5 miliardi e mezzo dal fondo per la Cooperazione allo sviluppo ». Una cifra che potrebbe essere sufficiente per la ricostruzione di un’area terremotata del Bel Paese, ma fioca per finanziare un così ambizioso progetto.
Ammesso pure che giungano dei contributi più corposi da parte di aziende private e donatori, è lecito fin d’ora supporre che un modello come quello evocato dal presidente del Consiglio sarà attuabile a condizione di rivedere radicalmente le regole del gioco, vale a dire quei meccanismi della finanza speculativa e del commercio internazionale che in questi anni hanno generato sofferenze indicibili a tutti i Paesi a basso reddito, dunque non solo a quelli africani.
Inoltre, l’economia continentale deve misurarsi costantemente con i flussi finanziari illeciti (Iff), vale a dire quei movimenti illegali di denaro e beni attraverso le frontiere che risultano alla prova dei fatti illegali nella fonte, nel trasferimento o nell’uso. Per non parlare del debito estero o della questione ambientale, con particolare riferimento agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici. E cosa dire del progressivo diffondersi e perdurare di numerosi conflitti armati a livello continentale? Come già scritto in più circostanze su questo giornale, essi sono legati alle debolezze nei processi di state-building e nation-building.
La raffica di golpe che ha investito l’Africa nel corrente decennio – quello in Gabon dell’agosto scorso è l’ottavo in Africa centrale e occidentale dal 2020 – conferma questo trend. Una cosa è certa: tutto questo ragionamento non può prescindere da quanto dichiarato da Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana, e che cioè l’Africa deve avere «la libertà di scegliere gli alleati liberamente, senza doversi allineare a un blocco rispetto a un altro, senza imporre nulla e senza che nulla sia imposto a noi».
Nella consapevolezza che l’Africa possiede il 30% delle risorse minerarie mondiali e il 60% delle terre coltivabili inutilizzate a livello planetario, oltre a essere il continente più giovane del pianeta, con un’età media di 20 anni. Motivo per cui, citando Plinio il Vecchio: «Ex Africa semper aliquid novi».

www.avvenire.it/opinioni/pagine/il-piano-mattei-che-parla-allafrica-non-pu-ignorare-cosa-la-umilia

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