«C’è chi si ostina nell’arte della guerra, ma noi saremo ancora più ostinati nell’arte della pace», di Annachiara Valle

La necessità di pensare la pace in Terra Santa. «Un tema forse un po’ alto», esordisce il patriarca di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università cattolica di Roma. Un luogo, aveva spiegato poco prima il preside della Facoltà di Medicina e chirurgia, professor Antonio Gasbarrini, dove si cerca di formare «professionisti della Salute in grado di coniugare eccellenza, partecipazione, empatia verso le persone che soffrono», con una grande attenzione ai valori della persona, oltre che all’eccellenza scientifica. In questo contesto il cardinale Pizzaballa ha sottolineato quanto sia importante l’uso delle parole anche per tenere viva la speranza, che non è una cosa «utopica vuota di contenuto».

Non entra in disamine politiche, il patriarca, che in mattinata aveva incontrato il Papa per discutere con lui su come arginare la spirale di violenza, ma sottolinea che questo «è uno dei momenti più difficili di questi ultimi decenni. La nostra gente è in preda al terrore, al panico all’incertezza del futuro».
Quanto sta accadendo ha spazzato via anni di dialogo anche interreligioso e «smantellato l’illusione di facili prospettive di pace». Ciascuno è chiuso nel suo contesto, nel suo dolore, cristiani, ebrei, musulmani.  «Si dovrà ricominciare da capo», dice Pizzaballa, «ricostruire con pazienza, tenendo conto degli errori del passato, delle tante troppe ferite del passato e del presente che forse non erano state prese sufficientemente in considerazione. I tempi di una guarigione saranno necessariamente lunghi. Avranno bisogno di percorsi complessi, ma che saranno comunque decisamente necessari». Occorrerà dare forza e concretezza a parole come giustizia, verità, riconciliazione, perdono. «Queste parole devono tornare a essere espressioni credibili e desiderate senza le quali sarà difficile pensare a un futuro diverso».
Dal 7 ottobre, ricorda il patriarca, i media e i nostri telefonini «sono pieni di immagine di sangue e distruzione, di morte e anche di dichiarazioni di odio, vendetta rancore, dove ciascuno si sente vittima la sola vittima di tutto questo tsunami di odio». Il cuore ci ciascuno è talmente pieno di dolore da non riuscire a trovare spazio per il dolore dell’altro, «ciascuno vede se stesso come vittima, la sola vittima di questa guerra atroce. L’uno e l’altro vogliono chiedere empatia per la propria situazione e spesso percepiscono espressioni di comprensione verso altri da sé come un tradimento o almeno un mancato ascolto della propria sofferenza. È una situazione in tutti i sensi lacerante».
Il cardinale parla della necessità di una «dimensione profetica in questo travaglio». E le religioni dovrebbero essere in grado di orientare le persone come facevano i profeti dell’antico testamento «che spiazzano sempre le attese del popolo». Il profeta scardina gli schemi, essendo lui stesso lacerato. «Ciascuno per la sua parte è chiamato ad essere profeta e ad avere coraggio in questo contesto a costruire prospettive di vita». Non bastano gli aiuti umanitari, occorre una parola che esprima vicinanza. «Quando tutto è perduto abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia parole di speranza. Magari la speranza non la vedi, ma le parole sono importanti. Alle immagini di dolore, odio bisogna rispondere con immagini e parole di speranza. Di luce. Bisogna insomma avere il coraggio di parlare. Non solo di dire quello che si pensa, ma anche soprattutto di pensare quello che si dice». Le parole sono determinanti, soprattutto da parte di chi ha responsabilità pubbliche. E il cardinale si rammarica che i leader religiosi non siano riusciti a esprimere una posizione comune. Anzi ci sono state «affermazioni durissime anche da personaggi con altre responsabilità civili, ahimè anche religiose, che negavano fatti gravissimi o che incitavano alla distruzione o che gioiscono pubblicamente alla notizia di morti e violenza».

Il linguaggio non né un elemento «accessorio in questa guerra, anzi è uno degli elementi, degli strumenti principali di questa è troppe altre guerre: definire l’altro come animale o comunque usare espressioni che negano l’umanità dell’altro da qualunque parte esse vengano è anch’essa una forma di violenza che apre o forse addirittura può giustificare scelte di violenza. In molti altri contesti e forme sono espressioni che forse feriscono più ancora degli eccidi e delle bombe». Come Dio ha creato il mondo con le parole: «Sia fatta la luce e la luce fu. Sia fatto il sole e il sole fu», anche noi «creiamo il nostro mondo con le nostre parole». E quindi «nel pubblico, nel privato, nei media nelle sinagoghe nelle chiese nelle moschee occorre avere il coraggio di parole che aprono orizzonti e non diano pretesto a violenza e rifiuto». E ancora: «Se noi il mondo della cultura, il mondo della Fede non siamo capace di aprire orizzonti con le nostre parole, il nostro linguaggio le nostre espressioni che ci stiamo a fare qua?».
Il cardinale ricorda il ruolo delle religioni, dei documenti elaborati dopo le tragedie del Novecento, il dialogo interreligioso sulla fraternità umana. «Eppure», sottolinea, «in questo nostro attuale contesto tutto questo sembra essere lettera morta». Bisogna parlare, scegliere, orientare.  Invece «vi è un grande assente in questa guerra: la parola del leader religiosi con poche eccezioni, non si sono sentiti in questi mesi da parte della leadership religiosa, discorsi riflessioni e preghiere diverse da qualsiasi altro politico, leader politico o sociale. Spero di essere smentito, ma si ha l’impressione che ciascuno si esprime esclusivamente all’interno della prospettiva della propria comunità musulmani con musulmani cristiani con cristiani e così via che ciascuno custodisca e consolidi la narrativa della propria comunità di appartenenza. Spesso contro l’altro». Il dialogo interreligioso sembra morto, spazzato via «da un pericoloso sentimento di sfiducia: ciascuno si sente tradito dall’altro non compreso non difeso non sostenuto. Mi sono chiesto più volte in questi mesi, se la fede in Dio sia davvero all’origine del pensiero e della formazione della coscienza personale, creando così tra noi credenti una comprensione comune, almeno su alcune questioni centrali della vita sociale».
I credenti, «nella preghiera dovrebbero alzare lo sguardo e vedere che Dio alla fine richiama a guardare l’altro creato a immagine e somiglianza di Dio. L’altro in questo momento è un elemento di disturbo. Se non ci fosse l’altro non ci sarebbero problemi. Ecco la fede in Dio deve portarti a guardare l’altro in maniera diversa» e a uscire dalla rabbia.
Partendo da questa esperienza «dovremo ripartire – perché ripartiremo – coscienti che le religioni hanno un ruolo ancora centrale nel loro orientare e che il dialogo tra noi dovrà fare un passaggio importante e partire dalle attuali incomprensioni e dalle nostre differenze. Non abbiamo mai parlato tra cristiani, ebrei musulmani in Terra Santa della questione della nostra vita. È chiaro che se oggi vogliamo parlare di dialogo interreligioso non possiamo non partire da , altrimenti ci parleremmo addosso senza concludere nulla». E si dovrà fare non solo per bisogno o per necessità, «ma per amore».
Per affrontare la paura e la violenza ci vogliono le armi della speranza, della fede, della preghiera. Occorre educare alla speranza, per questo è importante anche l’università. «Ha un ruolo chiave in questo e qui che si deve cominciare a rieducare la gente alla pace alla nonviolenza, cioè imparare a conoscersi e stimarsi e anzitutto incontrarsi. Cosa che purtroppo non avviene nelle nostre scuole». I ragazzi non si incontrano a scuola, sono separati. E noi, invece dobbiamo imparare ad amare entrambi, palestinesi e israeliani.  «Non è così facile perché oggi ciascuno vuole l’esclusiva dall’attenzione se tu cerchi di essere aperto anche all’altro dai l’impressione, in questo momento di lacerazione profonda, di non completa empatia nei suoi confronti».
Abbiamo però «il dovere di edificare comunità riconciliate e ospitali aperte e disponibili» partendo dall’«ecumenismo della sofferenza».
Siamo «chiamati tutti», ha concluso il cardinale, «a varcare la barriera, ad andare oltre ogni speranza. Solo così la nostra vita non sarà spesa invano. E se vi è chi continua a ostinarsi nell’arte della guerra, noi saremo ancora più ostinati nell’arte di mettere pace».

www.famigliacristiana.it/articolo/c-e-chi-si-ostina-nell-arte-della-guerra-ma-noi-saremo-ancora-piu-ostinati-nell-arte-della-pace.aspx

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