PERCHE’ L’INDIA VUOLE DIVENTARE BHARAT: QUANDO IL NOME SEGUE LA POLITICA, DI ALESSANDRO MICHELUCCI

Al recente vertice del G20 che si è tenuto a New Delhi il 9 e 10 settembre Narendra Modi, il primo ministro indiano, si è presentato come “primo ministro di Bharat”. Non solo, ma vuole che questo nome diventi il nome ufficiale dell’India. A prima vista questa può sembrare solo una mossa di immagine, ma molto probabilmente è funzionale al ruolo di primo piano che il Paese asiatico vuole svolgere all’interno dei Brics (il gruppo composto da Cina, Russia, Sudafrica e Brasile, ora in allargamento da 5 Paesi ad almeno 11), rafforzando al tempo stesso le relazioni commerciali con l’Unione europea. In altre parole, si tratta di cancellare l’immagine di un’India marginale, veicolando invece una sensazione di novità e di potenza.

Il termine Bharat, che viene già usato da molti funzionari indiani, ha infatti una forte carica identitaria, perché è un termine sanscrito tratto dalle scritture di circa 2.000 anni fa. Del resto, Modi è un esponente del Bharatiya Janata Party (Partito del Popolo Indiano), espressione di un nazionalismo indù spesso intollerante, che vuole affermare la superiorità di questa religione sulle altre. Sono soprattutto i musulmani (14% della popolazione) che vengono periodicamente presi di mira dagli attacchi verbali del premier, ma anche i cristiani sono stati spesso oggetto di discriminazioni e violenze da parte di estremisti. I l caso dell’India, tuttavia, è tutt’altro che isolato. Il cambiamento dei nomi geografici – città, regioni e Stati – è un fenomeno che attraversa la storia. Nonostante questo, viene trascurato dai media. Di conseguenza, i cittadini comuni spesso ignorano questi cambiamenti, o comunque continuano pigramente a usare le vecchie denominazioni.

Colonialisti e anticolonialisti

In molti casi possiamo trovare un motivo comune: nascondere il passato. Ciò avviene per due motivi opposti. Da un lato, un popolo o un Paese che vuole rompere con il colonialismo e riaffermare la propria indipendenza. Ad esempio, il Nyasaland è diventato Malawi (1964), il Bechuanaland ha assunto il nuovo nome di Botswana (1966), Formosa è diventata Taiwan (1972), il Dahomey è stato ribattezzato Benin (1975), l’Alto Volta è diventato Burkina Faso (1984). Ma esiste anche il fenomeno inverso: spesso sono i colonialisti a imporre un nuovo nome per cancellare l’identità culturale dei territori che hanno invaso. Bellapais, un villaggio situato nella parte settentrionale di Cipro, è stato rinominato Beylerbeyi dalla sedicente “Repubblica turca di Cipro Nord”, che occupa illegalmente una parte dell’isola dal 1974. La Cina, dopo aver preso il controllo del Tibet nel 1950, lo ribattezzò Xizang, anche se il resto del mondo ha continuato a usare il vecchio nome. Fino a poco tempo fa, Pechino non ha fatto nulla per contrastare questa usanza, tuttavia negli ultimi anni ha espresso la ferma intenzione di imporre l’uso del termine Xizang anche a livello internazionale.

Il valore identitario del nome

L’uso del termine Tibet, comunque, non è una scelta politica. Al contrario, molti nomi geografici hanno un esplicito valore identitario. Sempre a proposito della Cina, la regione nord-occidentale nota come Xinjiang viene chiamata Turkestan orientale dagli Uiguri (turcomanni musulmani) che si oppongono al regime di Pechino. Allo stesso modo, i nazionalisti di Papua Occidentale, annessa dall’Indonesia nel 1969 con un referendum truccato, preferiscono West Papua all’ufficiale Papua Barat. Un ritorno al colonialismo: stiamo parlando della stessa Indonesia, ex colonia olandese, che era diventata indipendente nel 1945 e aveva cambiato il nome della capitale da Batavia a Giacarta. La città nordirlandese di Derry, ribattezzata Londonderry da Londra, non ha cambiato nome per i nazionalisti. Non solo, ma è stata teatro del tragico Bloody Sunday (30 gennaio 1972), dove l’esercito britannico ha ucciso a sangue freddo 14 cattolici che manifestavano pacificamente. Aotearoa è l’antico nome Maori della Nuova Zelanda, usato ancora oggi dagli indigni e dai loro sostenitori.

Questioni interne

In altri casi, invece, il nome viene cambiato per motivi interni, per esempio per riaffermare un certo retaggio storico o imporre una versione linguisticamente corretta. Edo, la capitale del Giappone, ha assunto il nome di Tokyo (”capitale orientale”) nel 1868. Nel 2001 il governo del Bengala Occidentale ha deciso di cambiare ufficialmente il nome della capitale, Calcutta, in Kolkata, per riflettere la sua pronuncia originale in bengalese. Ma ci sono anche questioni interne tra i colonialisti. Nieuw Amsterdam, la Nuova Amsterdam fondata dai coloni olandesi, divenne New York nel 1664, quando gli inglesi si impadronirono della città nordamericana.

Da un regime all’altro

Un cambio di nome è spesso la conseguenza di un cambio di potere. Il 27 marzo 1919, pochi mesi dopo la nascita della Cecoslovacchia, Pressburg fu ribattezzata Bratislava. Precedentemente parte dell’Impero austro-ungarico, la città si chiamava anche Prešporok in slovacco e Pozsony in ungherese. Memel, un importante porto del Baltico dominato dagli Stati tedeschi per quasi sette secoli, fu ceduto alla Lituania nel 1923 e ribattezzato Klaipëda. La Turchia, fondata da Kemal Atatürk nel 1923, voleva cancellare tutti i segni del passato ottomano, così la sua capitale, Costantinopoli, divenne Istanbul (1930). Naturalmente, anche le dittature vogliono lasciare il loro segno. Un caso pressoché unico è quello del fascismo italiano, che nel 1923 ha italianizzato gli 8.300 toponimi dell’Alto Adige: Bozen è diventata Bolzano, Brixen è stata ribattezzata Bressanone, Toblach è diventata Dobbiaco… Fortunatamente l’autonomia del dopoguerra ha reso ufficiale il bilinguismo.

Il caso singolare della Turchia

Si può dire, anche se con una certa approssimazione, che i Paesi che godono del maggior rispetto internazionale sono quelli che possono imporre con maggiore efficacia nuove denominazioni geografiche. Nel 2022 la Turchia ha fatto sapere al resto del mondo che non voleva più essere chiamata Turkey, che in inglese significa anche “ tacchino”, ma con il termine autoctono Türkiye. La repubblica eurasiatica è nata nel 1923: possibile che nessuno se ne fosse mai accorto? In ogni caso la richiesta è stata immediatamente accolta. In teoria, il problema dovrebbe riguardare solo gli anglofoni: termini come Turquie, Turchia, Türkei sono inquivocabili. Nonostante questo, sembra che Türkiye si stia affermando anche in altre lingue, come il francese e lo spagnolo, dove non sarebbe necessario. Sambra davvero strano: la Norvegia non ha mai preteso che il resto del mondo la chiamasse Norge, così come la Germania non ha mai imposto agli altri di chiamarla Deutschland.

Fonte: Avvenire, 19 ottobre 2023

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