La causa palestinese pare esercitare sui giovani occidentali un fascino simile a quello del Vietnam sulla generazione dei nonni. E sarebbe sbagliato ridurre le motivazioni di tanti idealisti alla vergognosa stupidità di chi l’altro giorno ha messo a ferro e fuoco Milano, devastandone la stazione Centrale nel nome di Gaza. Del resto nella Striscia martoriata si trascina da due anni la più classica delle guerre asimmetriche, come insegna Michael Walzer.
In questo tipo di conflitto si affrontano un combattente iper tecnologizzato, spesso indifferente ai danni collaterali, e uno che usa quale arma ibrida la propria stessa popolazione, nascondendosi fra le donne e i bambini e facendo così ricadere sul nemico l’onta della loro morte.
È automatica, quasi naturale, l’opzione di molti, segnatamente europei, cresciuti nella cultura dei diritti umani. E soprattutto lo è la scelta di campo dei ragazzi, tali e tanto vistose sono le sofferenze inflitte ai civili palestinesi. Si sta col più debole: dominatore sul terreno militare, nel tribunale delle coscienze il gigante perde sempre; fu così anche per l’America della «sporca guerra» contro i tunnel di Ho Chi Minh.
Meno naturale è lo slancio, in questo caso verrebbe da dire giovanile, di numerosi governanti occidentali, e nello specifico di grandi nazioni europee, verso il riconoscimento dello Stato di Palestina. Un atteggiamento molto impegnativo sul piano delle alleanze e dei rapporti internazionali. Perché in definitiva è la posizione di alcuni importanti Paesi dell’Unione a cambiare a fondo in queste ore i confini geopolitici tra l’Occidente e il cosiddetto Sud globale. Una parte assai rilevante della Ue, integrata dal Regno Unito, ha deciso di rompere gli indugi e di attribuire una dimensione statuale a quei territori frammentati e insanguinati. In Palestina mancano molte delle caratteristiche minime per individuare uno Stato. Ma anche noi fummo un tempo mera «espressione geografica», benché dimora d’una civiltà che aveva forgiato il mondo. Anche il focolare nazionale degli ebrei nella dichiarazione di Balfour del 1917 fu un’idea, per quanto radicata in una vicenda millenaria. Dunque, ha senz’altro ragione Paolo Giordano quando, su queste colonne, spiega che la direzione storica è segnata. La direzione, appunto. Non la distanza: che in questo caso appare davvero immensa. Non l’effettività: senza la quale un’azione diventa soltanto una buona intenzione. E di buone intenzioni è lastricata la via dell’Europa almeno dagli inizi del Duemila in poi.
Da quando nel 2005 abbiamo fallito nel darci una Costituzione voluta dai nostri popoli accontentandoci poi di un Trattato negoziato dai nostri governi, la Ue ha imboccato la strada della paralisi. Un liberale ironico come il belga Guy Verhofstadt ha battezzato le sue pietrificanti contraddizioni con «la politica dell’annuncio»: che consiste nella «costante promozione di grandi obiettivi e progetti senza i mezzi necessari per realizzarli». Ora, la svolta sulla Palestina sembra purtroppo attagliarsi proprio a questa spietata definizione. Di fronte alle disumane immagini della carestia tra i piccoli gazawi, della distruzione di Gaza City pietra su pietra e dell’esodo coatto degli abitanti, ci diciamo: bisogna fare qualcosa! Ahinoi, l’Europa, che resta un colosso economico ma un nano politico per la sua ritrosia a dotarsi di una decente difesa comune e d’una sola strategia diplomatica, non può fare un bel nulla. Dunque? Bisogna compiere un gesto! Che rappresenti, appunto, un’intenzione. E ci mondi dal peccato dell’immobilismo.
I gesti, specie quelli poco meditati, possono incorrere purtroppo nell’eterogenesi dei fini. Non è necessario essere trumpiani per vedere che Hamas, già esultante, si presenterà agli occhi dei suoi connazionali come l’unico soggetto che sia riuscito a conseguire un risultato politico così clamoroso tenendo peraltro ancora in cattività un buon numero di ostaggi catturati nel pogrom del 7 ottobre. Ciò non cambierà di una virgola la condizione dei gazawi e neppure dei palestinesi di West Bank: bombardati senza tregua i primi e sottoposti ad occupazione militare i secondi. Fomenterà aspettative, certo: che la corrente elettrica arrivi a Hebron e che un permesso di lavoro serva davvero a lavorare; che una clinica di Betlemme abbia medicine e attrezzature; che un diploma preso a Nablus valga qualcosa oltre i checkpoint di Tsahal. È probabile che queste aspettative verranno deluse, generando nuova rabbia, e la definitiva scomparsa dell’Anp di Abu Mazen.
Dalla parte israeliana è già evidente come i falchi messianici del gabinetto Netanyahu stiano cavalcando l’onda. Itamar Ben-Gvir, un ministro della Sicurezza con alle spalle una cinquantina di denunce per estremismo, invoca per ritorsione l’immediata annessione di West Bank. Ma persino un centrista come Naftali Bennett riassume in una battuta l’indifferenza israeliana all’isolamento internazionale: «Tra vedere i miei figli vivi ed essere impopolare e vederli morti ed essere amato dal mondo, preferisco l’impopolarità». Chi non coglie questa decisione, drammatica ma trasversale alla società israeliana, rischia di non capire il problema. Certo, gli europei colpiranno sempre più Israele sul piano economico ma questo getterà gli israeliani sempre più nelle braccia del trumpismo radicale.
Non è così incomprensibile dunque l’estrema cautela del governo italiano e di quello tedesco davanti all’idea di riconoscere una statualità nella quale non si ravvisano né un’autorità condivisa né una giurisdizione uniforme, né un territorio definito né un’economia indipendente: null’altro che caos. Le conseguenze di questo processo sono tutt’altro che imprevedibili. Il riconoscimento della Palestina oggi può farci dormire sonni più tranquilli, non c’è dubbio. Ma che aiuti palestinesi e israeliani a svegliarsi in un domani migliore è forse un pio desiderio.
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