Il Vangelo odierno: In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16, 13-19 – solennità dei ss. Pietro e Paolo).
La scomparsa di papa Francesco e la nomina di papa Leone ci ha esposto – non poteva essere diversamente – a un tam tam mediatico che, in diversi casi, ci ha fatto perdere il senso cristiano della figura del papa, “perso” tra commenti, interpretazioni, previsioni, scoop, confronti tra i due e via discorrendo. La festa odierna ci riporta ai testi biblici e, con essi, dobbiamo purificare mente e cuore da tante scorie, non solo mediatiche.
Non ci sono dubbi sul fatto che la fede di Pietro e di Paolo sia stata qualcosa che né carne né sangue abbiano rivelato agli interessati. Forse Pietro e Paolo si aspettavano un’esistenza completamente diversa. Ma non è stato così. E’ stata una grande avventura, ma, al tempo stesso, l’avventura di ogni credente. Non, ovviamente, nel senso che ognuno di noi può dirsi o sentirsi Pietro o Paolo; ma nel senso che, nella loro personale esperienza di fede, ci sono molti elementi dell’esperienza di fede di ognuno di noi. Ne è prova, prima di tutto, la loro diversità emotiva, intellettuale, caratteriale, religiosa, professionale, relazionale, politica.
Pietro e Paolo giungono alla fede in Cristo con percorsi diversi, ma tuttavia ricchi e stimolanti; conoscono la grazia quanto il peccato, l’abbandono in Lui come il tradimento, la gioia come il dolore di seguirlo. Forse il primo elemento che li accomuna è quello di essere pienamente se stessi. Non si va a Dio fingendosi altri. Non si può dargli la vita recitando una parte teatrale o cinematografica. Si va a Dio per quello che siamo e con quello che siamo. “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene” (Gv 21, 17), confessa Pietro, dopo essere stato interrogato per tre volte, con ricordi amarissimi, e prima di ricevere un impegno di vita notevole. E Paolo non ha paura di scrivere di sé: “prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia” (1Tm 1, 13).
Siamo così. Così come il buon Dio ci ha fatti. Così come la nostra debolezza ci porta spesso a cedere e a deturpare l’immagine di Dio in noi. Vale per i papi, i vescovi, i preti e i fedeli laici. Vale per tutti. E solo così, possiamo andare a Dio, abbandonarci nelle sua mani.
Ha scritto Dietrich Bonhoeffer: “Più tardi ho appreso, e continuo ad apprendere anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere al di qua della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi un santo, un peccatore pentito o un uomo di Chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano, e questo io chiamo esserealdiqua, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani e, io credo, questa è fede, questa è metanoia, e si diventa uomini, si diventa Cristiani”.
Rocco D’Ambrosio [presbitero, docente di filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma; presidente di Cercasi un fine APS]