Nel torpore mediatico del prossimo ferragosto e della sua attenzione enfatica per vicende più nuove e “interessanti” del mostro di Lochness – in assenza di notizie drammatiche sulla geopolitica e la guerra – rischiano di passare inosservate alcune novità interessanti. Mi riferisco in particolare a due stimolanti indicazioni sulla incessante e travolgente applicazione della intelligenza artificiale: sia sull’evoluzione della robotica nel mondo del lavoro rispetto all’impegno già tradizionale in esso; sia sulla ricerca e la “quasi scoperta” di un’unica “lingua globale” nel mondo della comunicazione attraverso il superamento in essa delle differenze e delle conseguenti barriere linguistiche. Quanto al vastissimo tema dell’automatizzazione del lavoro in tutte le sue numerose varianti, è sorprendente ma non incredibile – anche per il lettore profano – l’aumento della produttività attraverso l’impiego delle tecnologie robotiche più progredite e nuove invece dell’impiego tradizionale di personale umano per le ipotesi più nuove e disparate di lavoro e di controllo del lavoro altrui; soprattutto nella logistica, ma con applicazioni nei campi più diversi (cfr. S. Herrera, La Stampa 02.07.25). È una evoluzione che, per quanto “epocale”, resta pur sempre confinata nel campo della “prevedibilità” e della accettazione di una logica di sviluppo e di crescita che si riconduce in senso ampio ad una profezia biblica. In essa si traduce esplicitamente la condanna dell’uomo e della donna al momento della loro cacciata dal giardino dell’Eden per aver trasgredito il divieto di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. L’uomo perché «lavorasse il suolo da cui era stato tratto … con il sudore dalla fonte…»; la donna perché «partorisse con dolore i figli…» con il «dominio» del marito. A questa prima condanna ne seguì un’altra ben più drastica e radicale: il diluvio universale perché «la malvagità degli uomini era grande» ed essi furono distrutti con la terra e gli animali. Fu un vero e proprio “genocidio”, con la sola eccezione di Noè, dei suoi familiari e degli animali da quest’ultimo scelti grazie all’Arca. Alla esecuzione di quella condanna seguì un nuovo patto di alleanza fra Dio e il genere umano, attraverso il segno dell’arcobaleno. Infine, quando «tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole…», gli uomini si riunirono per costruire un’unica città con un’unica lingua. Ma come nuova condanna «il Signore li disperse su tutta la terra» ed essi «cessarono di costruire la città chiamata Babele per la confusione della lingua». La vicenda della Torre di Babele (cfr. Scaglioni, Login – Corriere della Sera 13.06.25) e del suo mito biblico segna presumibilmente l’inizio di una lunga discussione preistorica, storica, recente e attuale. È la ricerca di una “lingua unica universale”; di una prassi e poi di una varietà di tecnologie della comunicazione e dell’informazione che si sono ampiamente sviluppate e tuttora si accrescono nel tempo. Quella ricerca si arricchisce di esperienze come la tradizione via via sempre più perfezionata e tendente alla simultaneità tra scrittura e ascolto: la scoperta e le acquisizioni tecnologiche della scrittura e della sua diffusione e conservazione e documentazione; l’elaborazione e la formazione di patrimoni sempre più ampi per l’informazione, la formazione scolastica, la vita culturale e scientifica. La storia della scrittura; poi della stampa; poi ancora della diffusione radio-televisiva e della telecomunicazione; infine ora della realtà dei social si è sviluppata attraverso un lungo cammino della vicenda umana. È tuttora in corso ed è la dimostrazione più evidente – anche per il profano – dell’importanza e degli effetti della “punizione biblica” della Torre di Babele. È una punizione singolare, “double face” quella della Torre di Babele. Da un lato vi è la risorsa positiva dello stimolo offerto dalla diaspora della popolazione umana alla generazione di più culture, al dialogo fra esse, alla biodiversità e allo scambio culturale, al confronto nella solidarietà, alla comune ricerca scientifica, allo scambio commerciale ed economico. In parole semplici, al dialogo e alla ricchezza del confronto e della scelta. Da un altro lato, al contrario, vi è lo stimolo negativo alla chiusura, all’egoismo, allo scontro e alla rivalità, ai nazionalismi, alla menzogna reciproca, all’egoismo ai livelli più disparati: da quello politico e geopolitico a quello economico, sociale, culturale. Sino ad arrivare alle motivazioni per uno scontro fisico o per un’avversione reciproca consolidata; o a un vero e proprio odio fra persone come fra popoli. Nel mezzo, fra queste due realtà e la loro espressione troppo spesso confinanti o sovrapponentisi, vi è la palude dell’incertezza, dell’ambiguità e dell’indifferenza che troppo spesso sconfina nel disinteresse, nella ricerca di profitto; o al contrario nell’adesione antica e radicale all’estremismo dell’una o dell’altra posizione. L’unica riflessione che appare possibile trarre per il profano in questo contesto di confusione sembra essere una indicazione proposta dalla nostra Costituzione nella sequenza fra gli articoli 2, 3 e 9: l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge, che non basta ed è condizionata dalla pari dignità sociale in un contesto di promozione dello sviluppo delle culture e della ricerca scientifica e tecnica. Non ci può essere eguaglianza nell’articolo 2 senza diversità e viceversa nell’articolo 3. A condizione che la diversità non diventi discriminazione e che essa come l’eguaglianza siano garantite dallo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica promosso dall’articolo 9. L’avvento dell’intelligenza artificiale segna il ricorso degli strumenti classici e tradizionali per superare le barriere linguistiche: l’uso di interpreti/intermediari; o la ricerca di progetti linguistici con “ambizioni universali” di unicità; o il ricorso a lingue-ponte come l’emblema della lingua inglese nella modernità. Si sono sperimentate e tuttora si sperimentano novità affascinanti come la reale simultaneità tra chi parla (o chi scrive) e chi ascolta (o chi legge): ciascuno nella propria lingua, senza bisogno di intermediari o di particolari strumenti tecnici. Quella che era in passato la simultaneità nel passaggio dal messaggio scritto a quello orale con il telefono, sembra divenire ora simultaneità del colloquio senza bisogno di intermediari e con strumenti semplici. Come si è osservato giustamente, non vi è più distanza tra persone, né tra scritto e parlato, né ora né in futuro tra lingue diverse (Cfr. C. Antonelli). Resta aperta la serie di interrogativi proposti dalla concreta attuazione di una simile prospettiva, e della sua presumibile applicazione su larga o larghissima scala. Sia in una dimensione globale di presumibile abbattimento delle barriere linguistiche su scala globale; sia nella previsione logica di un suo arricchimento con strumentazione e immagini tecniche sempre più perfezionate, che completino un simile dialogo e la presenza virtuale degli interlocutori con supporti di immagine e visivi. Sia con le possibilità di utilizzazioni illecite e di fiction per creare una “presenza virtuale” sulla scorta delle esperienze in tema di fake news. Sia infine con e per la valutazione dei costi e dell’impiego (presumibilmente assai elevato) di energia per la realizzazione di questo tipo di contratto. La sacralità della parola, la sua “realtà” nel rapporto con gli altri e nel suo significato politico riassunto dalla dimensione anche letterale del Parlamento e della democrazia rappresentativa; l’“uso pubblico” della parola e la associazione fra essa e la presenza fisica della persona. Sono tutti elementi (cfr. M. Magatti, “Democrazia e rischio. Restituire dignità alla parola”, Corriere della Sera 04.07.25) che sottolineano la dignità, lo spessore e l’impegno della parola come ponte fra la persona e la realtà, quindi gli altri. Ciò vale a sottolineare il valore e il potere simbolico e di responsabilità della parola, anche (forse soprattutto) nella e per la politica (cfr. G. Antonelli, Rivoluzione simultaneità, Login – Corriere della Sera 13.06.25). Vale ad attualizzare il significato già biblico dell’VIII Comandamento «Non dire falsa testimonianza» anche oggi e ben al di là del suo significato protostorico e storico nell’elenco dei dieci Comandamenti; nonché al di là del riferimento al suo presumibilmente specifico ambito giudiziario, consolidato all’origine nel valore della “testimonianza” in vista di un giudizio fra posizioni e pretese contrapposte; anche ben al di là dell’ambito del diritto e della norma. Il “comando” di Dio, il rapporto tra dimensione religiosa, etica e giuridica; il richiamo al rapporto tra il testimone e il “prossimo”; la similitudine e le affinità tra il comandamento biblico e quello del codice di Hammurabi; il dovere di veridicità in una società basata sulla comunicazione e trasmissione orale (cfr. anche T. Padovani, Non dire falsa testimonianza, Il Mulino, Bologna 2011) testimoniano – al di là del valore storico e giuridico dell’istituto – il rapporto tra verità e persona, il suo legame con la fiducia e quindi con la “pubblica fede” nel rapporto fra diritto ed etica, fra “persona e prossimo”, fra fiducia e responsabilità. Sono tutti aspetti e profili che connotano il valore sostanziale e formale della parola, del consenso, del valore che essa assume nel dare concretezza e sviluppo alla relazione tra due persone ben al di là del significato “formale” del suo tecnicismo con l’accoppiamento virtuale e tecnologico tra dichiarazione e presenza virtuale di immagini anziché con la partecipazione fisica alla dichiarazione. Non per nulla la sede tradizionale e storica della democrazia è tuttora identificata nel Parlamento, cioè nel luogo storicamente dedicato al dialogo politico. Non per nulla nella tradizione giuridica romana le formule valgono ad esprimere la realtà fisica sottostante, come il mancipium. Non per nulla – se il paragone non è irriguardoso – il nucleo centrale del Sacrificio, rappresentato dal rapporto fra la Divinità e l’uomo, è espresso dalla formula della Consacrazione: «Fate questo in memoria di Me», nel Sacrificio eucaristico. Non riesco neppure a immaginare una dimensione formale e virtuale del logo e del verbo, a fianco o in sostituzione del mistero, per chi ha il dono della fede. E colgo anche in questo la dimensione e il limite della condizione umana, nonostante il continuo progredire di essa nei cieli dell’Intelligenza artificiale.
avvenire.it/attualita/pagine/ia-e-torre-di-babele?