Una prova decisiva per l’Europa, di Giuseppe Sarcina

La trattativa sulla guerra in Ucraina rappresenta, tra tante cose, la prova di maturità dell’Europa. Ieri i leader dei principali Paesi Ue, più il Regno Unito, hanno partecipato al secondo atto del negoziato, dopo il faccia a faccia di Ferragosto tra Trump e Putin. Non era scontato e, di per sé, questo risultato dimostra come, se esiste la volontà politica, si possa iniziare a costruire seriamente una strategia comune, anche senza le riforme, che pure sarebbero necessarie, dei Trattati.
 È un esame difficile, rischioso, perché bisogna confrontarsi con l’imprevedibilità e anche la volatilità di pensiero esibite anche stavolta da Donald Trump. E, nello stesso tempo, bisogna fare i conti con il consumato cinismo di Putin che in Alaska ha fatto il possibile per tenere lontani gli europei da Washington. Ma è anche l’occasione per dimostrare che gli europei sono in grado di tenere il punto, in difesa dei propri valori e dei propri interessi. Non è stato così nella trattativa sui dazi con gli Usa. Questa volta sembra andata meglio.
Lo sappiamo: non tutti sono convinti che Putin rappresenti una minaccia esiziale per le democrazie europee. Larga parte dell’opinione pubblica in Paesi come Spagna, Portogallo, Francia, Germania e la stessa Italia ritiene che il presidente russo non oserà mai attaccare uno dei partner della Nato. Al contrario, il blocco dell’Est, formato da Polonia, Paesi baltici e quello del Nord, con Finlandia e Svezia, non hanno dubbi: il problema non è «se», ma «quando» l’armata putiniana aggredirà la prossima preda. Con le armi convenzionali o con un’offensiva ibrida, tecnologica.
La «spedizione dei cinque» in America è stata già una risposta a questa insidiosa contraddizione nello stato d’animo tra e dentro i diversi Paesi. La cooperazione tra gli europei, e ci includiamo anche i britannici, ha senso se è in grado di trovare una sintesi efficace tra le diverse posizioni. Negli anni scorsi non è accaduto per l’immigrazione: di fatto gli Stati del Nord si sono disinteressati dell’emergenza vissuta nel Sud del Vecchio Continente. Questa volta, il tedesco Friedrich Merz, il francese Emmanuel Macron, il britannico Keir Starmer, l’italiana Giorgia Meloni e il finlandese Alexander Stubb hanno lavorato a fondo per presentarsi come un fronte compatto. Ancora una volta, non era facile trovare un equilibrio tra posizioni diverse. Il caso più evidente è quello delle garanzie di sicurezza da fornire all’Ucraina per evitare che in futuro possa essere di nuovo invasa dalla Russia. Nelle ultime settimane è tornata in primo piano la proposta di Meloni: adottare un meccanismo di difesa simile a quello previsto dall’articolo 5 della Nato. Vale a dire: tutti gli alleati corrono in aiuto di un partner aggredito. Macron sostiene che non basta una formula teorica. Serve qualcosa di più: una «presenza fisica», una forza militare di interposizione schierata sul territorio ucraino.
Ieri, però, i leader di Francia e Italia hanno opportunamente evitato una divisione plateale, concentrandosi sull’obiettivo principale della missione a Washington: spalleggiare Zelensky, convincere Trump a impegnarsi per proteggere l’Ucraina. D’altra parte, e questo lo ha ricordato a tutti Zelensky, che sia un «simil articolo 5» o un contingente europeo, non si va da nessuna parte senza il sostegno armato degli americani. 
La morale del dibattito sulle garanzie di sicurezza è semplice: l’Europa ha grandi potenzialità, ma non è ancora nelle condizioni di emanciparsi sul piano militare, e quindi geostrategico, dagli Stati Uniti. Quindi ben vengano il pragmatismo, la capacità di analisi e di sintesi, messe in mostra a Washington. Ma occorre anche la coscienza dei propri limiti attuali, che è poi la spinta più potente per rafforzare e allargare ancora di più il perimetro della collaborazione ad altri Stati, anche fuori dall’Unione europea, come prova la ritrovata sintonia con il Regno Unito. Abbiamo bisogno di tutti: della Spagna guidata dal socialista Pedro Sánchez alla Polonia, oggi spaccata in due, con il presidente nazionalista Karol Nawrocki, un fan di Trump, e il primo ministro Donald Tusk, centrista ed europeista. Il caso polacco è esemplare: le divisioni interne sottraggono peso al ruolo degli Stati. Tanto che la Polonia, finora uno dei Paesi più impegnati nella causa ucraina, non ha partecipato al summit storico nella capitale americana.

corriere.it/opinioni/25_agosto_18/una-prova-decisiva-per-l-europa-67793a2b-77cc-47a6-b534-cbf74d23axlk.shtml?refresh_ce

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