Il terribile naufragio di Crotone è l’ultimo di una lunga, tragica serie: migliaia di persone alla ricerca di una vita migliore continuano ad annegare nel Mediterraneo. Ed è moralmente indispensabile che la nostra prima reazione sia di ricordare il carico di morte, sofferenza e terrore che ogni naufragio si porta dietro.
Che poi le recriminazioni, il puntare il dito, e peggio ancora i tentativi di guadagnare consenso politico siano inutili — e reprensibili — già lo sappiamo. Ma sono di dubbia efficacia anche le soluzioni semplicistiche: «Fermate i barconi!», oppure: «Lasciateli entrare tutti!».
La realtà è che le ragioni per cui le persone si muovono sono complicate. Alcuni — i rifugiati — fuggono da guerre, persecuzioni e violazioni dei diritti e hanno bisogno di protezione internazionale. Altri — i migranti — ricercano opportunità economiche e sociali. Spesso le motivazioni si sovrappongono, con l’emergenza climatica a causare sempre più sia povertà che conflitto.
Tutti naturalmente meritano di essere trattati con dignità e rispetto; nessuno deve essere lasciato morire. Ma solo riconoscendo le cause dei movimenti possiamo affrontare le sfide (e le opportunità) che essi presentano all’Europa. E siccome le cause sono complesse, così devono essere le risposte. Da anni facciamo agli Stati proposte concrete; proposte che non si prestano facilmente a uno slogan ma rispecchiano la varietà delle situazioni affrontate, letteralmente lungo l’arco dei viaggi compiuti da rifugiati e migranti; proposte attuabili solo come un pacchetto che non può che essere europeo.
Innanzitutto, il salvataggio in mare è un obbligo marittimo antico quanto l’invenzione delle imbarcazioni. Non è negoziabile. Non si possono porre limiti al soccorso quando altri esseri umani sono in pericolo. Le Ong svolgono un ruolo cruciale e vanno sostenute, non limitate, ma l’obbligo spetta in primo luogo agli Stati e deve poter usufruire di maggiori risorse a livello europeo. Gli Stati devono garantire che le navi disponibili siano in grado di salvare e sbarcare rapidamente. Ma l’onere dello sbarco non può essere sostenuto solo dai Paesi costieri. Il dibattito tra governi sulle modalità di equo ricollocamento in tutta l’Ue è estenuante. È vergognoso che non si riesca ad arrivare a conclusioni pratiche.
La responsabilità della tragedia di Crotone e di molte altre va imputata anche ai colpevoli ritardi accumulati in questo dibattito, che hanno motivazioni soprattutto politiche. E il rimpatrio sicuro e dignitoso di coloro che non sono rifugiati — uno degli elementi più difficili di questa equazione — non può essere ottenuto che attraverso un’azione congiunta degli Stati europei, di concerto con i Paesi d’origine. La Commissione europea da anni propone un patto continentale su migrazione e asilo, patto che, come tutti gli accordi internazionali, comporta molti vantaggi per tutti e anche qualche concessione. La tragedia di Crotone ispirerà a chi prende decisioni in Europa un po’ del coraggio politico necessario a farle?
Ma il pacchetto va oltre. Bisogna naturalmente che la comunità internazionale impari di nuovo a fare la pace; e a porre fine a guerre, violenze e discriminazioni che hanno costretto più di 103 milioni di rifugiati in tutto il mondo a lasciare le loro case. Bisogna anche affrontare una moltitudine di questioni nei Paesi di origine e transito: alcune sfide sono immense, e richiedono aiuti molto maggiori e meglio coordinati a livello europeo: lo sviluppo, il buongoverno, il clima. Significa sfruttare le enormi opportunità che esistono in un’Africa giovane e dinamica, investendo nelle sue economie, creando le possibilità che meritano i suoi giovani, anche quelli che per disperazione scelgono i barconi. Ma si tratta anche — in modo più specifico — di sostenere meglio i Paesi e le comunità d’asilo e lungo le rotte migratorie. Tutto ciò contribuisce a ridurre la necessità di partire o intraprendere movimenti «secondari»; e riduce anche il potere dei trafficanti (le cui reti criminali devono essere sgominate non solo a parole, ma con molta più determinazione).
E infine: la mia organizzazione, l’Unhcr, si occupa di rifugiati ma quello che oggi mi pare più urgente, anche per preservare il diritto d’asilo, è la necessità di tenere una conversazione onesta e seria sulla migrazione. Ogni politico sa che un’Europa invecchiata ha bisogno di immigrati per tenere in piedi le sue economie e garantire la sostenibilità delle sue politiche sociali, dei sistemi sanitari, delle pensioni. Eppure, pochi hanno il coraggio di proporre serie politiche migratorie.
I canali di migrazione legale verso l’Europa sono drammaticamente insufficienti, ed è anche perciò che in molti intraprendono viaggi pericolosi attraverso il mare. Questo mette sotto pressione il sistema di asilo — spesso il solo canale disponibile — e mina la fiducia nella capacità di risposta degli Stati, danneggiando i governi alle urne e penalizzando i rifugiati. Continuo a sperare che almeno alcuni di coloro che rappresentano i cittadini europei trovino il coraggio di parlarne: per i migranti, i rifugiati, per le comunità che li accolgono, per le società europee. I passi da fare per evitare che si ripeta la tragedia della scorsa settimana non sono né veloci né facili. Ma sono possibili, urgenti e necessari.
Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.