Quando gli uomini non lavorano: scelta consapevole o fallimento?, di Laura Zanfrini

La bassa partecipazione alle forze di lavoro è uno dei principali problemi che affliggono il mercato del lavoro italiano. Il tasso di attività – pari nel 2023 al 66,7% – è infatti il più basso tra i Paesi europei, inferiore alla media dell’Unione di oltre 7 punti percentuali. A differenza della disoccupazione, l’inattività – ossia la condizione di chi non lavora e non cerca un lavoro – è però un fenomeno tradizionalmente trascurato tanto dai media quanto dalla politica: eppure, le difficoltà a reclutare nuovo personale in un Paese che invecchia dovrebbero incoraggiare gli sforzi per (ri)attivare un esercito di 25-64enni inattivi che conta più di 8 milioni di persone, di cui quasi 2 milioni e mezzo maschi. Ma c’è di più. Del problema dei «Neet», giovani che non studiano né lavorano, si sente spesso parlare. Così come delle donne che rinunciano al lavoro per via delle lacune nei sistemi della conciliazione. Al contrario, il gruppo dei maschi adulti, da sempre considerato “centrale” e avvantaggiato, resta fuori dai riflettori. Sebbene l’Italia registri uno tra i più bassi tassi di attività maschile, oltre 4 punti sotto la media Ue, e sia tra i Paesi maggiormente coinvolti nella “fuga dal lavoro” da parte degli uomini adulti.
Quello di questi (im)perfetti sconosciuti – come recita il titolo di uno studio, ancora in corso, promosso dall’Università Cattolicaè un universo complesso. In primo luogo, l’inattività maschile si intreccia con alcune note criticità del nostro mercato del lavoro che concorrono a rendere porosi i confini tra attività, inattività, occupazione e disoccupazione. Tra tutte, il cronico dualismo Nord-Sud che, insieme alla straordinaria diffusione del lavoro irregolare, rende eccezionalmente elevata la presenza di inattivi nelle regioni meridionali e spiega quasi interamente il gap con gli altri Stati europei. Molti sono però i “veri” inattivi e diverse sono le ragioni dell’inattività. Le trasformazioni dei sistemi produttivi e l’innovazione tecnologica hanno determinato l’espulsione dei lavoratori con competenze obsolete o non in grado, anche in ragione di un’età non più giovane, di adattarsi alla nuova struttura di opportunità: un epilogo che potrebbe riproporsi con la digitalizzazione e l’avvento dell’intelligenza artificiale. L’abolizione del collocamento obbligatorio aveva del resto già sancito la condanna all’inattività dei soggetti ritenuti meno occupabili che, in mancanza di un solido sistema di politiche attive del lavoro, vanno fatalmente incontro allo scoraggiamento, anticamera dell’uscita dalle forze di lavoro.
A sua volta, la concorrenza di lavoratori particolarmente adattabili e con un basso salario di riserva – come sono, ad es., gli immigrati stranieri giunti in misura copiosa nell’ultimo quarto di secolo – ha favorito la transizione all’inattività di lavoratori poco inclini ad accettare condizioni di lavoro e retributive al di sotto di una certa soglia. Favoriti, in ciò, dai provvedimenti – come la cassa integrazione straordinaria e il moltiplicarsi degli scivoli verso il prepensionamento – in grado di attutire le conseguenze economiche dell’inattività e di renderla una condizione socialmente legittima: presentati come strumenti per fare spazio ai giovani in un Paese malato di gerontocrazia, tali provvedimenti hanno appesantito il fardello che grava sulle nuove generazioni. Infine, vi è il fenomeno del distacco volontario dal lavoro, battezzato con formule come quella della great resignation (le grandi dimissioni). Differenti sono anche le valutazioni dell’inattività maschile. Da un lato, essa è descritta come grave patologia sociale, che segnala il fallimento dei percorsi individuali e delle promesse di inclusività. In uno dei pochi studi dedicati, riferito agli Stati Uniti d’America, l’uomo inattivo è addirittura descritto come colui che viene meno alle responsabilità verso se stesso, la propria famiglia e la nazione, sovvertendo le “basi morali” della società e mettendone a rischio la sopravvivenza.
Dall’altro lato, l’inattività è celebrata come scelta consapevole, coerente con la ricerca di una migliore qualità della vita – e dunque con l’attesa di maggiore tempo per sé e per le cose che davvero contano – oppure come denuncia sofferta ma determinata di fronte al generale peggioramento della qualità dell’occupazione e alla diffusione del “cattivo lavoro”: un lavoro non solo così invasivo da comprimere spazi e tempi di riposo e libertà personale, ma spesso anche sottopagato, con pochi diritti e tutele, talvolta addirittura “tossico” al punto da compromettere il benessere psico-fisico, il clima familiare, la vita di relazione. Al di là delle differenti valutazioni, innegabili sono i costi dell’inattività per gli equilibri complessivi del mercato del lavoro e dei sistemi di welfare, a maggiore ragione alla luce degli scenari demografici che attendono l’Italia. Per gli economisti, l’inattività aggrava le difficoltà di reclutamento e di conseguenza scoraggia gli investimenti. Essa è anche una delle principali cause dell’impoverimento delle famiglie e, specie quando riguarda i maschi adulti, può associarsi a problemi di salute fisica, depressione, tensioni familiari, isolamento sociale, alcolismo e rischi di cadere in altre forme di dipendenza.
Pur rappresentando una condizione “deviante” rispetto alle aspettative normative della società industriale e moderna, l’inattività maschile è un prodotto di quest’ultima che, affermando uno specifico regime di genere, l’ha resa socialmente accettata per le donne ma non per gli uomini. È soprattutto per questi ultimi che le sue conseguenze non si limitano al piano economico, ma investono quello sociale, familiare, comunitario, sancendo una sorta di condanna per avere disatteso al ruolo “maschile”. E determinando, talvolta, una “disconnessione” non solo dalla sfera economica, ma anche da quella sociale e perfino familiare: a riflesso di una società che ha impedito loro di esibire un ruolo sostitutivo di quello professionale, l’esclusione dal lavoro finisce col decretare un fallimento tout court esistenziale da cui si rischia di venire definitivamente sopraffatti. Vi è dunque da chiedersi: le donne sono più capaci degli uomini di adattarsi alla inattività e reinventarsi o è la società che a loro permette di farlo e agli uomini no? Ma anche se sia oggi possibile cogliere qualcosa di nuovo, proprio attraverso il fenomeno del “non-lavoro” e la sua capacità di filtrare i bisogni, i vincoli, le priorità e le aspettative che definiscono il senso della vita in rapporto al senso del lavoro. L’esperienza dei maschi adulti potrebbe anzi rivelarsi la più feconda per analizzare il rapporto tra l’inattività, le carriere professionali e le “carriere di vita”, l’evoluzione dei regimi di genere, le tensioni che investono i sistemi di accumulazione e riproduzione sociale.
Risulta allora come, in un contesto in cui i nuclei familiari sono sempre più piccoli e isolati, anche l’inattività maschile può essere una condizione imposta dalle necessità di cura e assistenza. Mentre per molti il bisogno rende accettabile un lavoro purchessia, altri, semplicemente, non hanno bisogno di lavorare grazie alla ricchezza finanziaria e patrimoniale accumulata dalle famiglie. Dichiararsi inattivo può, infine, essere una strategia per lenire la sofferenza di una ricerca del lavoro lunga e fallimentare; oppure una sorta di contro-narrazione, una postura contestativa che potrebbe diventare stimolo a costruire nuovi modelli sociali, economici e organizzativi. In definitiva, la condizione dei maschi adulti inattivi è emblematica nel far emergere l’intricato groviglio di variabili che influenzano le condizioni di vita e le opportunità, così come la varietà delle risposte individuali, ribadendo per converso la centralità del lavoro – anche quando, o perfino soprattutto, quando il lavoro non c’è – nella definizione dell’identità individuale e nella costruzione (ovvero nella lacerazione) del legame sociale.

avvenire.it/opinioni/pagine/quando-gli-uomini-non-lavorano-scelta-consapevole-o-fallimento

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