Sarebbe banale ridurlo a un incontro tra spie.
Vladimir Putin ha mandato in quel di Abu Dhabi i due uomini che ogni mattina gli mettono sul tavolo il rapporto sull’andamento della cosiddetta Operazione militare speciale.
Come noto, il presidente russo non segue i media. Legge quel che gli viene sottoposto dal capo del Servizio segreto militare Igor Kostyukov e da quello del Servizio segreto estero, Sergey Naryshkin, titolare peraltro di una lunga esperienza sul dossier Ucraina, iniziata già nel 2014 con gli «omini verdi» che apparvero all’improvviso in Crimea. Non è solo una questione di reciprocità, dovuta al fatto che dall’altra parte del tavolo c’era Kyrylo Budanov, capo indiscusso dell’intelligence di Kiev. I due funzionari russi sono gli unici ad essere stati sempre presenti alle riunioni dell’ampio gruppo negoziale che si sono tenute al Cremlino prima della partenza di ogni delegazione per gli infruttuosi colloqui di Istanbul. E soprattutto, sono considerati gli artefici del vertice di agosto in Alaska, nonché i principali depositari dei suoi segreti.
La loro presenza negli Emirati Arabi è stata letta in patria come un chiaro messaggio: noi non ci muoviamo dal protocollo siglato la scorsa estate che Donald Trump rinunciò a imporre dopo aver recepito la forte contrarietà dei leader europei. In alternativa, data la loro conoscenza della materia, nella capitale russa qualcuno pensa anche a un tentativo di Kostyukov e Naryshkin per convincere la controparte che combattere non ha più senso.
Ma il punto di caduta del Cremlino, come ieri ha sottolineato anche il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, rimane quello. E appare difficile che la Russia possa muoversi da lì.
Mentre noi europei ci facciamo in quattro per analizzare questo giro di negoziati, i media russi sono uniti come non mai nella loro copertura. Certo, la stampa è sempre allineata con il Cremlino, ma soprattutto i giornali di carta tendono spesso a riprodurre i propri interessi e i propri punti di vista. Ma quando si tratta di questioni delicate, a tutti arrivano i temniki, le indicazioni informali dell’amministrazione presidenziale sulle cose da dire. Quando la stampa parla con una sola voce, la voce è quella di Putin. E in questo momento, non promette nulla di buono. La politica serve solo come una ulteriore conferma. Infatti, il navigato Aleksej Chepa, primo vice della Commissione esteri della Duma, trasuda scetticismo. «Di quale piano stiamo parlando? Del piano 28, del piano 24 o del 19, oppure di una sorta di simbiosi tra i tre? Al momento non esiste nulla di definitivo. Già i 28 punti richiedevano una seria discussione da parte nostra. Adesso, ci viene detto che non valgono più, e che si tratta su qualcosa approvato da Washington e da Kiev. Immagino quindi che dovremo parlarne a lungo».
Le linee rosse del Cremlino, ribadite in Alaska, non riguardano solo le rivendicazioni sul campo, ma anche il modo in cui esse verranno riconosciute, che si lega alla pretesa di una piena agibilità e riabilitazione internazionale di Putin, punto considerato irrinunciabile. Se il piano di Kiev è un cessate il fuoco sulla linea di contatto senza la legittimazione di Donetsk e Lugansk come territorio russo, con la definizione di «territorio provvisoriamente occupato, senza uno status giuridico», persone abbastanza informate dei fatti come il vicepresidente della Camera Alta Konstantin Kosachev non hanno dubbi sulla fine che farà il nuovo piano Usa-Ucraina. «Significa che il nostro nemico non è pronto per i negoziati, perché non accetta di condurli da una posizione perdente, ma ha invece pretese da vincitore».
Salvo grandi colpi di scena, che ovviamente sono consentiti a una sola persona, la sensazione generale in Russia è che per la pace bisognerà aspettare ancora. Dopo Natale, e oltre.
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