Nessuno al timone della nave, di Federico Oberto Tarena

La Conferenza sulla Sicurezza di Monaco è ormai la Davos della diplomazia internazionale. Almeno da quando Vladimir Putin la scelse nel 2007 per portare il suo primo attacco frontale – allora solamente retorico – all’ordine unipolare a egemonia americana. Allo stesso modo fu, due anni fa, uno dei palchi in cui si celebrò la totale rottura diplomatica tra Occidente e Russia. Dunque, un termometro per misurare l’umore della politica internazionale, in cui lo stato dell’arte della politica estera delle più grandi potenze, assieme alle maggiori sfide globali – dal clima al commercio alle tecnologie – restituiscono il puzzle della politica globale. E quest’anno, superato lo shock dell’edizione scorsa, leader politici, commentatori e analisti occidentali hanno contemplato la fine dell’ordine globale. Il quadro dipinto è quello di un mondo inevitabilmente destinato a subire gli effetti nefasti di rivalità geopolitiche vecchie e nuove.
Poco sorprendentemente, la parola d’ordine della Conferenza di quest’anno è stata lose-lose: svantaggioso per tutti. Il ritorno delle rivalità geopolitiche ha trasformato la politica internazionale in un grande gioco  a somma negativa in cui i frutti della prosperità, del commercio, delle tecnologie, e per alcuni anche la sicurezza fisica, vengono messi da parte in nome del sospetto, dei timori esistenziali, delle richieste rabbiose di riconoscimento. Un grande gioco, in cui alla fine tutti perdono, perlomeno dal nostro punto di vista.
Si diceva, della fine dell’ordine globale. Ammesso che sia mai lontanamente esistito un consenso globale su regole e rapporti fra potenze, superata la fase dello shock per i nuovi revisionismi (che pure non sono nuovi né sorprendenti), oggi si contempla più lucidamente il risultato di questi macro-movimenti. Nessuno è più al comando, i circoli viziosi evolvono da sé. Ogni elemento muove le proprie pedine in modi che peggiorano la salute complessiva del sistema. Ognuno lo fa consapevolmente, più o meno, perché irrimediabilmente persuaso che questa sia la sola strada percorribile. In Terra Santa si distrugge una popolazione per convincerla ad abbandonare il radicalismo. In Europa si radicalizza lo scontro per difendere la pace. Ogni azione ha come risultato l’opposto del suo obiettivo originario.
I teatri secondari – Sud-Est asiatico e Sahel – procedono in trasformazioni che rimettono in gioco gli equilibri invece che stabilizzarli. Nel primo si riorganizzano le alleanze per proteggersi dal gigante cinese, in vista di uno scontro che pure nessuno vorrebbe, per i succitati vantaggi reciproci del commercio a cui i vari Stati del Pacifico non vogliono rinunciare in nome di crociate securitarie tra grandi potenze. Nel secondo prosegue l’apertura ad affiliazioni le più variegate causa scadenza improrogabile dell’egemonia francese. Il clima, la de-globalizzazione e il nuovo arrivato – l’intelligenza artificiale – promettono di aggiungere il loro contributo di disordine, ma impallidiscono di fronte ai timori di Armageddon dei conflitti interstatali.
Nell’era post-unipolare, in cui i basilari economico-demografici dell’egemonia americana si assottigliano sempre più, gli Stati Uniti rimangono attori preponderanti della sicurezza internazionale per sproporzione militare e vantaggi geostrategici. I primi si riassumono nel confronto quantitativo: 877 miliardi contro i 292 miliardi cinesi, che però spendono in difesa solo l’1,6% del proprio PIL – una percentuale da europei occidentali – contro il 3.5% americano; trascurabili tutti gli altri (centonovantuno) Stati, che nemmeno sommati assieme riescono a pareggiare il conto. I secondi, si possono riassumere aforisticamente ricordando che è molto più facile gestire le preoccupazioni per la propria sicurezza quando due oceani hanno separato, per gran parte della loro storia, la nuova Terra Promessa dalle turbolenze del mondo intero. Donde un atteggiamento più pacifico e rassicurante nei confronti dei propri satelliti; un approccio che Russia e Cina invece non riescono e probabilmente mai riusciranno ad interpretare, per quanto le risorse energetiche della prima e la moneta sonante del secondo provino a pareggiare il computo politico.
Ma questo non vuol dire certamente che gli USA riescano più a orientare le dinamiche del sistema a proprio piacimento. La Conferenza di Monaco 2024 conferma il Mondo di nessuno di Richard Kupchan, in cui, al declino del primo, non si sostituisce un’analoga funzione ordinatrice. Quello che emerge è un mondo multiplo e – unicum storico per l’umanità – culturalmente eterogeneo e plurale, come ricordava Henry Kissinger in Ordine Mondiale. Non più un omogeneo concerto di potenze civilizzate, come ad esempio di vedeva l’ordine europeo di fine Ottocento. Ma un fiorire di civiltà, spesso barbare le une agli occhi delle altre, nel quale i valori occidentali non sono più dominanti, come afferma preoccupato lo stesso Kupchan.

E dunque, inevitabilmente costretto al compromesso più doloroso: quello identitario, che nei principi morali trova la base più profonda e solida della propria certezza di sé secondo Brent Steele.
In tutto ciò, un segnale positivo sembra arrivare dal Pacifico. Un segnale di riequilibrio del disordine, e dunque di razionalità. I rapporti tra Pechino e Washington non sono magicamente tornati amichevoli, come è normale che sia viste le enormi divergenze strutturali; nondimeno sono sorprendentemente segnati dalla responsabilità. Pechino, continua ad esemplificare il ruolo del Wise Man internazionale, impersonato dalle parole di monito del suo Ministro degli Esteri Wang Yi; Washington da parte sua cerca di mantenere un dialogo continuo, su questioni meno rilevanti – come la lotta congiunta contro il Fentanyl – ma comunque capaci di creare consenso tra le parti.
In ogni caso, le due maggiori potenze non si riavvicinano concretamente sui dossier strategici: il decoupling nei settori strategici prosegue, e Pechino non sta apportando modifiche sostanziali alle proprie pratiche industriali in nome di un rivendicato diritto allo sviluppo. Per tacere della questione Taiwan, su cui la buona volontà potrà fare ben poco se non accompagnata da gravosi ripensamenti strategici.
Però i due grandi percepiscono, in questo momento di polarizzazione del sistema, di dover contribuire con un movimento opposto. Continuano a portare avanti quella che due anni fa veniva definita una nuova guerra fredda, ma evitano appositamente di percepirla tale; anzi, se possono cercano di riporre l’ascia che fino a poco tempo fa veniva brandita con aggressività scoordinata per imporre sanzioni e tariffe a pioggia, talvolta deleterie per gli stessi interessi di chi le proponeva. Si ricorda a questo proposito l’esempio clamoroso delle sanzioni finanziarie del 2019 alla borsa di Hong-Kong, che aprirono un flusso impareggiato di capitali cinesi verso di essa, e provocaronoinvece una lunga trafila di perdite per gli investitori americani.
Questa volontà diplomatica ci rassicura del fatto che qualcuno il timone internazionale cerca ancora di governarlo. Chiaramente, oggi è più complesso di ieri, perché la forza superiore non basta più, e un’incessante tendenza al compromesso è inevitabile. Ma la consapevolezza di doversi sottrarre alla polarizzazione è il miglior segnale cui, ad oggi, si può realisticamente puntare.
Una responsabilità che ci insegna come non sia più il massimalismo ideologico la miglior garanzia di sicurezza, bensì la capacità di ragionamento lucido e pragmatico, capace anche di accettare l’inevitabile pluralismo del futuro ordine internazionale, se è ancora lecito sperare di poterlo ottenere.

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