Un anno fa, in un’anonima fiera di contea, Donald Trump schivò davvero un proiettile. Da quel momento la sua campagna – già alimentata da un sempreverde populismo – mutò totalmente registro: il MAGA non poteva più fondarsi solo su una nuova sfumatura di repubblicanesimo, era ufficialmente la rivoluzione temuta da un amorfo stato profondo, questa era la narrazione sedimentatasi nella mente degli elettori repubblicani. Qualche giorno dopo, J.D. Vance accettò la vicepresidenza declamando che il futuro governo avrebbe onorato l’uomo che timbra il cartellino, la leggendaria e inscrutabile working class americana; non l’algoritmo che macina dividendi. La formula era chiara e semplice: basta globalismo, prima l’America.
Ma la narrazione di un movimento omogeneo e unito nello scopo non era destinata a durare. Un anno dopo il giuramento mitopoietico di Vance, ecco spuntare la frattura: Elon Musk lancia il suo America Party, un manifesto centrista carico di tecnoentusiasmo, libertarianesimo, razionalità ed efficientismo; in altre parole, la cifra stilistica della Silicon Valley fatta partito. La questione centrale attorno a cui ruotano le fedeltà tradite è l’immigrazione. Non strettamente come flusso reale di persone e competenze, ma come simbolo, forma visibile della guerra civile silenziosa tra due Americhe: quella rurale, de-industrializzata, bianca e arrabbiata; l’altra urbana, globalizzata e transnazionale, spesso incapace di comprendere la ferocia della prima.
Trump ha sempre costruito le sue campagne elettorali sul paradosso, sulla riconciliazione di tribù che si odiano cordialmente: nel 2016 il populismo MAGA strinse un’alleanza con la vecchia guardia del GOP, incarnata per l’occasione da Mike Pence – passato alla storia come il Benedict Arnold del trumpismo, il traditore di January 6th – in una prima grande coalizione la cui tenuta fu, opinabilmente, solida per un intero mandato. Nel 2024 il vicepresidente cambia totalmente estrazione, J.D. Vance rappresenta – per i suoi trasparenti legami con Peter Thiel – una nuova coalizione tra Mar-a-lago e Palo Alto. Il risultato è stato una danza schizofrenica: da un lato rassicurazioni ai finanziatori della West Coast sull’apertura controllata dei visti H1B, dall’altro promesse muscolari ai lavoratori dell’Ohio di murare i confini e deportare in massa. La tensione tra i due poli è sfociata definitivamente in rottura con Musk. La colossale legge di bilancio che Trump ha fatto approvare, ha lasciato dietro di sé un cratere nella spesa pubblica americana, nonché un sentiero di cenere lungo le priorità di Musk: tagli alle rinnovabili, compressione degli incentivi per l’elettrico, silenzio glaciale sul futuro di Tesla.
Nel frattempo, il grosso del consenso trumpiano regge, e non per inerzia. La nuova destra americana non è né pienamente conservatrice né genuinamente rivoluzionaria: è un assemblaggio adattivo, capace di incorporare segmenti contraddittori in una narrazione coerente solo quanto basta. La dirigenza MAGA accetta, con calcolo più che con convinzione, un certo grado di immigrazione qualificata. Finché non destabilizza i sobborghi o le mappe elettorali, ma anzi alimenta le supply chain digitali e le esigenze del capitale tecnologico, l’eccezione può diventare regola. Il punto cruciale è che Trump non ha mai davvero sposato un isolazionismo integrale. La sua posizione sull’immigrazione è sempre stata selettiva. Risuona ancora quel passaggio chiave che inaugurò la campagna 2016 – “they’re not bringing their best”– come griglia interpretativa del trumpismo: l’America deve aprirsi, sì, ma solo a ciò che può sfruttare. Non si tratta di chiudere i confini, ma di piegarli a una funzione meritocratica. Secondo il Migration Policy Institute, nel 2023, gli Stati Uniti hanno concesso circa 188.000 visti H-1B, in gran parte destinati a lavoratori dell’IT, dell’ingegneria e della finanza. Silicon Valley continua a esercitare pressione per l’espansione di queste quote, e lo fa – spesso – con l’appoggio silenzioso del trumpismo, che nel frattempo alza i toni contro gli ingressi irregolari al confine sud.
Si arriva così al paradosso: il “centro” esiste già. Non è un’area neutra tra gli estremi, ma una zona di instabile equilibrio prodotta dallo scontro continuo tra blocchi ideologici. Trump, a modo suo, lo ha costruito. Non lo ha scelto per via deliberativa ma lo ha forgiato pragmaticamente, tenendo insieme interessi inconciliabili grazie alla narrazione. D’altronde, che Silicon Valley segua Musk in questa impresa è tutto da dimostrare, la sinergia Trump-Vance e l’atteggiamento devoto di Sam Altman suggeriscono ben altro. I tecnomagnati sembrano ben acclimatati nel centro imperfetto, irregolare, cinico ma funzionale costruito da Trump.
Nel proporre la sua versione di centrismo attraverso l’America Party, Elon Musk parte da una premessa altresì indimostrata: che sia possibile una politica razionale, tecnocratica e universalmente benefica. Le posizioni di Musk evocano, a tratti, un modello familiare al pubblico europeo: la retorica del “buonsenso” come cifra ideologica, la pretesa di fare il bene comune attraverso i conti in regola e la crescita economica, la convinzione che la delega ai competenti possa risolvere ciò che la politica rovina. Un’eco, certamente involontaria, delle esperienze “terziste” italiane dal centrismo tecnico di Monti fino a certi sogni renziani, in cui la politica si presenta come amministrazione illuminata, neutralizzando il conflitto anziché assumerlo. Ma questo modello, quando attraversa l’Atlantico e giunge nel contesto statunitense, mostra dei limiti. L’ipotesi che le frange delle due coalizioni possano dialogare in virtù della loro “razionalità comune” – i tecnocrati liberal insofferenti dell’assistenzialismo e la socialdemocrazia dei Dem da un lato, i libertari conservatori allergici al protezionismo di Donald Trump dall’altro – è un esercizio di astrazione. Le fratture che Musk vorrebbe ricucire sono culturali prima ancora che economiche. E come spesso accade nei momenti di polarizzazione, le identità si irrigidiscono proprio mentre le convergenze materiali si moltiplicano. Nel breve termine, dunque, l’America Party rischia di rimanere poco più di un’appendice del trumpismo. Una deviazione elitaria priva di radicamento elettorale. Non a caso, è già stato ribattezzato online – con sarcasmo – il “Partito H1B”, ridotto all’etichetta delle sue priorità di classe: la mobilità internazionale per i meritevoli, la crescita senza frizioni e il prosieguo della globalizzazione.
Il progetto di Musk, in altre parole, è ancora troppo indeterminato per contendere davvero la scena politica. E forse troppo onesto nella sua proposta di neutralità per sedurre un elettorato che ha imparato a preferire il conflitto alla sintesi. Musk ricorda le forme del terzismo italiano anche nelle ambizioni: non pretendere di scalzare uno dei due grandi partiti, ma sedimentarsi in piccole nicchie, costruire una minoranza determinante a minare un esecutivo e sostenere pragmaticamente il governo o l’opposizione in nome dell’appoggiare proposte razionali. L’America Party, dichiara Musk, ambisce a questo: assicurarsi qualche distretto, costruire un fortilizio di parlamentari che – anche attestandosi sotto la ventina – possa agevolare o paralizzare una legge di bilancio. Tuttavia, il successo di Trump non sta nel suo programma, ma nella sua capacità di rappresentare un’identità: quella di un’America ferita ma combattiva, ansiosa di riconoscersi in una narrazione che legittima le sue paure e ne sublima le contraddizioni. Il centrismo evocato dal magnate sudafricano, nella sua forma tecnica e pulita, manca di tutto ciò. Non ha un linguaggio identitario, non ha un nemico esistenziale, non ha un corpo sociale da rappresentare. Ha solo l’idea che si possa ancora governare senza scegliere, dividere o sacrificare nulla. Ma la politica americana è fatta di scelte che scontentano metà del paese, e solo chi è disposto ad accettare questa asimmetria può davvero governare. Trump l’ha capito. Musk, forse, no.
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