La resistenza di Pizzaballa, di Riccardo Cristiano

C’è un uomo oggi che richiede particolare attenzione: è il patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa. Il 12 ottobre del 2010, in occasione del sinodo sul Medio Oriente, allora Custode di Terra Santa disse che «i pellegrinaggi da tutto il mondo e la presenza di ebrei e musulmani appaiono agli occhi della fede come adempimento seppure parziale della profezia del raduno di tutti i popoli sul monte Sion (Is 2, 2-4)».
Forse è anche questa visione che lo ha portato a decidere di non rispettare l’ordine dell’esercito israeliano di evacuare da Gaza, che riguardava anche le due parrocchie cristiane presenti nel nord della striscia, quella cattolica − la Chiesa della Sacra Famiglia, e quella ortodossa − la Chiesa di san Porfirio.
La decisione è stata presa dai rispettivi patriarchi, il cardinale Pierbattista Pizzaballa e Teofilo III e i loro motivi vengono accuratamente spiegati nella dichiarazione congiunta del 26 agosto scorso (cf. qui su SettimanaNews):
«Al momento della presente dichiarazione, sono già stati emessi ordini di evacuazione per diversi quartieri della città di Gaza.
Continuano ad arrivare notizie di pesanti bombardamenti. Si registrano ulteriori distruzioni e morti in una situazione già drammatica prima dell’inizio dell’operazione. Sembra che l’annuncio del governo israeliano secondo cui ‘si apriranno le porte dell’infernostia effettivamente assumendo contorni tragici.
L’esperienza delle passate campagne a Gaza, le intenzioni dichiarate dal governo israeliano riguardo all’operazione in corso e le notizie che ci giungono dal terreno dimostrano che l’operazione non è solo una minaccia, ma una realtà che è già in fase di attuazione.
Dallo scoppio della guerra, il complesso greco-ortodosso di San Porfirio e quello latino della Sacra Famiglia sono stati un rifugio per centinaia di civili. Tra loro ci sono anziani, donne e bambini. Nel complesso latino ospitiamo da molti anni persone con disabilità, assistite dalle Suore Missionarie della Carità.
Come gli altri abitanti della città di Gaza, anche i rifugiati che vivono nella struttura dovranno decidere secondo coscienza cosa fare. Tra coloro che hanno cercato riparo all’interno delle mura dei complessi, molti sono indeboliti e malnutriti a causa delle difficoltà degli ultimi mesi.
Lasciare Gaza City e cercare di fuggire verso sud equivarrebbe a una condanna a morte.
Per questo motivo, i sacerdoti e le suore hanno deciso di rimanere e continuare a prendersi cura di tutti coloro che si troveranno nei due complessi».
Poi la dichiarazione cita così papa Leone: «Tutti i popoli, anche i più piccoli e i più deboli, devono essere rispettati dai potenti nella loro identità e nei loro diritti, in particolare il diritto di vivere nelle proprie terre; e nessuno può costringerli a un esilio forzato». Dunque «rimanere e continuare a prendersi cura di tutti».
Il 22 agosto 2025, quando il Papa ha indetto una giornata di preghiera e digiuno per la pace, della pace Pizzaballa ha detto: «Non trova terreno nelle istituzioni, non lo trova nelle grandi organizzazioni, siano esse politiche e ahimè anche religiose, ma trova terreno tra tante persone, movimenti, gruppi, associazioni e singoli che non accettano questa deriva. La preghiera serve anche per creare questo legame con le persone di tutte le fedi che, nonostante tutto, vogliono ancora però credere che il cuore dell’uomo, anche in Terra Santa, può cambiare».
Crederci sarà forse difficile, ma decisivo.
Per farsi un’idea di come la decisione di «restare» rispecchi qualcosa di profondo in Pierbattista Pizzaballa, occorre tornare al 2020, quando fu nominato Patriarca latino di Gerusalemme da papa Francesco. Nella sua prima omelia si soffermò proprio sul verbo «restare», visto che restava in Terra Santa dopo tantissimi anni lì trascorsi, da ultimo come Custode di Terra Santa, e disse che restava «per camminare tra voi e con voi, […] per testimoniare e imparare il primato di Dio e dei Suoi tempi, la pazienza della semina, l’attesa colma di speranza e certa dei frutti dello Spirito».
Definì il verbo «restare» come il verbo della pazienza matura, dell’attesa vigile, della fedeltà quotidiana e seria, non sentimentale e passeggera. Quindi ricordò i problemi più gravi, «una politica dal corto respiro e incapace di visione, un’economia che sta impoverendoci sempre di più», la pandemia: «non dobbiamo scoraggiarci».

L’importanza di restare
Il patriarca del «restare», così calzante nell’oggi, non poteva decidere diversamente: restare a Gaza.
«Restare» indica un cammino diverso da quello di chi lascia il Medio Oriente, con una scelta comprensibile, nella quale sembra prevalere la sfiducia nel futuro. Non che chi lo faccia creda che il mondo ideale sia nel passato remoto, probabilmente però ha perso la fiducia nel futuro. Pizzaballa quando si presentò nel nome del «restare» sapeva che per sconfiggere la sfiducia occorrono soprattutto testimoni.
Molto difficile, ma da Gaza non risulta che qualche religioso o religiosa sia voluto andar via. Forse perché in queste ore alla Chiesa della Sacra Famiglia e a quella ortodossa di San Porfirio la parola «restare» acquista un senso immediato, che dà senso a una vita.
Lui ne sarà stato sicuro visto che un anno fa, tornando da Gaza, aveva detto:
«Avevo portato con me la promessa di una nuova vita, e sono stato molto sorpreso nel constatare che sono loro ad avermi dato una lezione che non dimenticherò mai: la fede incrollabile di quelle persone, accompagnata da sorrisi rassicuranti, mi ha segnato, e mi segnerà, per tutta la vita».
Collegandosi il 28 agosto scorso con i fedeli riuniti nel duomo di Pavia, ancor prima che filtrassero le notizie sul piano di Donald Trump per Gaza, Pizzaballa aveva affermato che «trasferire le popolazioni, come si vuol fare a Gaza, è immorale, oltre che contrario alle convenzioni internazionali».
È però altrettanto rilevante un’altra sua frase, e cioè che Gesù ha dato ai credenti uno stile e i cristiani di Gaza lo seguono trovando un senso per la loro vita preparando i pacchi di aiuti per gli indigenti che assistono, non raramente musulmani:
«Per me e per la mia comunità è importante avere uno sguardo di fede su ciò che sta accadendo, non ci si può limitare alla cronaca di quello che succede. La fine della guerra non sarà la fine del conflitto: noi dobbiamo fare tutto il possibile per tenere viva l’umanità».
Questa è la vera chiave per capire il perché della decisione di restare a Gaza dopo l’ordine di evacuazione.
Nei giorni successivi il sito della diocesi di Cremona ha riassunto un passaggio in cui il cardinal Pizzaballa ha approfondito questo punto:
«Finché ci sarà anche una sola persona qui noi resteremo qui. Noi siamo Chiesa e il pastore sta con le sue pecore, con la sua gente. (…) Dare concretezza alla speranza, alle persone quando hanno perso tutto non è mai semplice, ma mi è chiaro dove questa deve stare. Le parole devono essere accompagnate dalla testimonianza. Non puoi separare le cose che dici da chi le dice. Sono venute meno le istituzioni, sia politiche sia multilaterali» che «hanno mostrato la loro debolezza, la loro incapacità di ascoltare e interpretare la realtà del territorio».
Abbiamo invece bisogno, in questo contesto, di riferimenti nella vita che ci diano prospettive. E questa mancanza crea un senso di disorientamento maggiore; non solo di quello che si sta vivendo ma, anche come si vive. E i sacerdoti, come tutti coloro che hanno un ruolo nella vita sociale e civile, sono l’unico riferimento della gente.
In un contesto in cui convivono musulmani, ebrei e cristiani risulta importare ricordare «che siamo creati a immagine e somiglianza di Dio. Questa immagine e somiglianza di Dio deve diventare espressione concreta nel modo in cui ne parliamo. Il linguaggio crea pensiero, crea cultura, crea riferimenti».

Senza scuole e senza futuro
Il primo settembre 2025 è stato reso noto l’usuale messaggio di Pizzaballa per la riapertura delle scuole cattoliche di Terra Santa, nel quale ha ricordato che per il terzo anno consecutivo le scuole però non riaprono a Gaza, una constatazione elementare, ma sulla quale non tanti si soffermano:
«Ancora una volta, le nostre scuole in Terra Santa aprono le loro porte per accogliere decine di migliaia di studenti, cristiani e non, che siedono fianco a fianco sugli stessi banchi, uniti dall’amore per l’apprendimento e animati dalla speranza nel futuro. Ognuno di loro è un dono prezioso di Dio, una fiducia sacra affidata alle nostre cure. Eppure, con profondo dolore, questa gioia non si estende ai nostri bambini di Gaza, che per il terzo anno consecutivo sono privati del loro diritto all’istruzione a causa della guerra. Le loro scuole sono state distrutte, le loro aule sono state chiuse. Li portiamo nelle nostre preghiere, implorando che la pace prevalga presto affinché possano tornare sui loro banchi e reclamare la loro infanzia».
Capire vuol dire anche considerare la sua attuale posizione e la sua storia: la cura della comunità ebreofona, cioè la comunità cattolica in Israele che si esprime in ebraico moderno e la connessa decisione di tradurre i testi liturgici in ebraico per la piccola comunità cristiana che ha studiato nelle scuole israeliane, il quinquennale incarico di consultore della Commissione per i rapporti con l’ebraismo, poi l’incarico di Custode di Terra Santa e quindi la nomina a patriarca.
Anche questo si esprime nel dolore che esprime, oggi che è patriarca, per le conseguenze enormi che avranno tanti anni senza scuola per tutto i ragazzi di Gaza, per le implicazioni contenute nel fatto che ripete assiduamente che a Gaza non si trovano antibiotici e così alcuni pazienti sottoposti a interventi chirurgici possono morire anche se l’operazione riesce per le infezioni che possono sopraggiungere, come si espresse nell’ottobre 2023 nell’offrirsi ad Hamas in cambio dei bambini israeliani presi in ostaggio:
«Se sono pronto ad uno scambio? Qualsiasi cosa, se anche questo può portare alla libertà e riportare a casa quei bambini nessun problema. Da parte mia disponibilità assoluta».
Una scelta chiarissima e forte, come quella che ha compiuto poco dopo, a Natale di quell’anno: recandosi a Betlemme ha scelto per la prima volta di indossare la kefiyah bianca e nera, indumento proprio della tradizione araba e divenuto un po’ un simbolo nazionale palestinese.
In quell’occasione davanti alla Chiesa della Natività il cardinale Pizzaballa ha scambiato qualche parola con i giornalisti in attesa davanti alla Basilica della Natività: «Dobbiamo fermare i bombardamenti a Gaza − secondo quanto riferito dal Washington Post − e riportare le persone a una vita normale. Non posso dire riportarle a casa, perché non hanno più una casa dove andare».
Due posizioni chiarissime assunte in giorni difficilissimi.

La Chiesa di Pizzaballa
Rileggere la lettera che ha inviato in occasione del recente sinodo generale della Chiesa, nel 2021, aiuta a farsi un’idea su di Pizzaballa:
«In genere siamo abituati ad interagire ciascuno nel proprio contesto di riferimento: i giovani con i giovani, i religiosi con i religiosi, le famiglie con le famiglie, ecc. Sarebbe a mio avviso invece importante incontrarsi a tutti i livelli: giovani con le famiglie, incontrare gli anziani negli ospizi, fare visite nelle case, incontrare realtà non conosciute prima, le parrocchie locali con gli stranieri, i lavoratori stranieri con i fedeli locali e così via.
Più che fare discorsi teorici, è utile ascoltare e incontrare esperienze, dalle quali imparare: è più utile andare in un monastero e ascoltare l’esperienza di vita delle religiose, che fare un discorso sulla vita religiosa. È più incisivo ascoltare l’esperienza di vita di un parrocchiano di Terra Santa, che elaborare una meravigliosa teoria sulla Chiesa locale. Muoversi anche fisicamente dalla propria sala parrocchiale, dal proprio centro per incontrare un’altra realtà della propria Chiesa non conosciuta penso possa fare in molti casi la differenza».
È quello che ha fatto in questi anni. Seguendolo si ha l’impressione di sentire una delle frasi-simbolo del pontificato di Francesco: «La realtà è superiore all’idea». Una realtà che si deteriora con i muri ideologici, quasi sempre legati alla violenza.
Forse allora si può percepire un discorso su due tracce: quella del conflitto israelo-palestinese, nelle forme a cui è giunto, e quella che riguarda il più vasto cristianesimo arabo. Un discorso che mi appare allontanarlo da quel cesaropapismo che condiziona.

Agnelli tra i lupi
Nel vasto Oriente molta teologia si è strutturata sull’idea di sinfonia dei poteri, di fatto sottoponendo il potere spirituale a quello del re cristiano. Poi quando il potere è cambiato ci si è adeguati, chiedendo in cambio protezione per le comunità cristiane.
Ecco il punto; la realtà fa cogliere il bisogno di ricostruire la fratellanza umana e quindi creare la protezione di tutti i cittadini e dei loro diritti. Questo nel discorso di Pizzaballa, di formazione figlio del Concilio Vaticano II, si sente. Il suo «restare a Gaza» è un restarvi disarmato, in un altro passaggio ha detto «come agnelli tra i lupi». Con la forza della testimonianza prova a spezzare il legame tra «religione» e «violenza». È «violenza», a mio avviso, la parola poco usata, e dalla violenza molto dipende.
Questo vale anche per gli arabi cristiani, che sovente ne sono vittime, ma che appaiono anche nostalgici dei tempi in cui il re e lo Stato erano cristiani. Ma senza la riscoperta della fratellanza umana come arrivare alla comune cittadinanza con pari diritti tra credenti nell’unico Dio?
Questo punto non può non riportarmi ai giovani della primavera araba, che si sono trovati divisi tra la necessità delle vecchie lealtà claniche, che consentivano loro la sopravvivenza in Stati senza diritti per i suoi presunti cittadini (in realtà non tali), e il desiderio di realizzarsi come individui intestatari delle loro idee e delle loro idoneità, finalmente cittadini.
Hanno scelto il desiderio, ma la violenza, infiltrata dai molti impauriti per sequestrare e dirottare il treno della Primavera, ha allontanato i cristiani dalla Primavera. La violenza genera paura, reazioni, rifiuti. E in quel caso riflussi all’ombra dei regimi.
Certamente non si può inquadrare il messaggio del cardinal Pizzaballa segmentandolo, va colto nel suo insieme e nell’oggi, ma credo che la sua azione oggi abbia un valore e una portata regionale, pur riguardando in primis i territori su cui ha competenza. Il cardinale Pizzaballa colpisce perché risulta come la voce del Concilio Vaticano II dove se ne ha urgente bisogno ma ancora poco conoscenza, condivisione.
Eppure le Chiese orientali hanno un’enorme ricchezza non solo liturgica, ma anche spirituale, come dimostra la storia del monachesimo e detengono tesori ecclesiali anche per noi sorprendenti, conservando ad esempio antichi testi dei riti d’ordinazione delle diaconesse.
La storia è stata a lungo dolorosa, ma il patrimonio per tornare protagonisti è innegabile. La visione conciliare è quella che consentirebbe di riemergere, riscoprirsi.

settimananews.it/vescovi/la-resistenza-di-pizzaballa/

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