Il metodo Trump e le strade della forza, di Massimo Gaggi

L’ossessione del Nobel, la rabbia per l’attacco di Israele nel territorio del Qatar, alleato americano, l’orgoglio ferito per non essere riuscito a far tacere le armi in Ucraina e in Medio Oriente appena insediato, come aveva promesso in campagna elettorale. Fino alla tregua raggiunta grazie a un dealmaking molto muscolare, lontano dalle regole della diplomazia.  Ma se in patria il suo modo di mettere i rapporti personali e il suo ego davanti ai principi e alle regole delle istituzioni sta creando grossi problemi, in Medio Oriente il metodo Donald Trump funziona. Tregua e scambio di prigionieri e ostaggi sono solo il primo passo, il più facile: rimangono molte incognite sul ritiro di Israele da Gaza e sul disarmo di Hamas, per non parlare del futuro della Striscia e della Cisgiordania occupata dallo Stato ebraico. Chi critica l’intesa sostiene che ad Hamas è stato offerto, più che un accordo, un aut aut: accettare o andare incontro allo sterminio.
 Ma negoziare con un’organizzazione che pratica il terrorismo e ha come obiettivo la soppressione dello Stato ebraico non poteva essere fatto seguendo regole diplomatiche tradizionali. E a Trump va dato atto di aver raggiunto un primo obiettivo sul quale per due anni tutti i possibili mediatori hanno fallito. Un risultato colto esercitando su Benjamin Netanyahu una pressione brutale come nessun altro presidente americano aveva mai osato fare in passato nei confronti di Israele.
Atteggiamenti e linguaggi autoritari indigeribili negli Usa (Trump ha appena chiesto l’arresto di due leader eletti come il governatore dell’Illinois e il sindaco di Chicago, un altro passo verso la crisi costituzionale), funzionano in Medio Oriente dove gli interlocutori arabi sono sovrani assoluti mentre il leader israeliano da anni forza le regole democratiche del suo Paese per cercare di restare al potere. 
Trump ha usato tutta la sua forza di schiacciasassi, anche sul piano mediatico, quando ha costretto Netanyahu a scusarsi col sovrano del Qatar, Al-Thani, ha dato eco mondiale alla cosa pubblicando la foto della telefonata e subito dopo ha garantito la sicurezza del Paese del Golfo con un ordine esecutivo che promette una protezione militare a livelli Nato: un modo per dire di non avere più piena fiducia nel leader israeliano.
La tregua terrà? Si faranno altri passi verso la pace? La strada è in salita, una salita ripida. Ma già nel primo mandato, con gli accordi di Abramo che avevano normalizzato le relazioni di Israele con Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan e aperto il dialogo coi sauditi, Trump aveva dimostrato, usando tecniche non ortodosse (soprattutto la logica degli affari e la possibilità di una difesa comune contro l’Iran, accantonando i nodi del rispetto dei diritti umani) di poter cucire intese che i diplomatici «tradizionali» consideravano impossibili da raggiungere. E anche il suo secondo mandato è partito all’insegna degli stretti rapporti finanziari e tecnologici coi Paesi del Golfo.
 Trump coronerà il sogno del Nobel per la Pace? Fa una certa impressione che possa riceverlo un leader che, per dirne solo una, sta distruggendo con missili e droni battelli di presunti narcotrafficanti venezuelani che potrebbero essere facilmente bloccati dalle unità della Marina Usa senza incenerire quegli equipaggi. E Trump minaccia anche interventi diretti per destituire Maduro.
 Ma già quattro presidenti americani (Theodore Roosevelt, Woodrow Wilson, Jimmy Carter e Barack Obama) hanno ricevuto il Nobel in passato, in qualche caso senza grande merito. Potrebbe anche toccare al quinto. Non necessariamente quest’anno (Carter fu insignito oltre vent’anni dopo aver lasciato la Casa Bianca).

corriere.it/opinioni/25_ottobre_09/il-metodo-trump-e-le-strade-della-forza-7e56e868-fc60-4df6-9296-5e83ccd49xlk.shtml

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