Il desiderio di una pace ingiusta, Federico Oberto Tarena

Dopo quasi quattro anni di guerra, ormai stagnante se non tendente al peggio, gli Stati Uniti hanno detto basta. Per esplicitare l’antifona, tornano all’offensiva con un piano di pace in 28 punti nel momento più difficile per Kyiv, da settimane travolta da un maxi-scandalo corruzione, e da mesi in difficoltà nell’ultimo fazzoletto del Donbass. Gli europei rispondono con una contro-proposta, giudicata dai più un tradimento per timidezza. Ma alla resa dei conti, nessuno può volere più di quello che le capacità permettono, e le ‘carte’ in mano al Vecchio Continente sono troppo poche.
Il piano è stato accolto con lo sdegno di rito essendo che in diplomazia vale il principio del “ciò che non è prodotto da me, è ipso facto contrario al mio volere”. Questo ovviamente vale tanto per i russi quanto per gli europei, ma essendo che questa bozza è stata redatta in tandem con l’inviato di Putin – Kirill Dmitriev – era nell’ordine delle cose che la reazione di Mosca fosse a questo giro “costruttiva”. Lo sdegno ucraino è in fase di trattativa (questa volta, lontano dal pubblico sdegno). Quello europeo è rimbalzato confuso tra le sale come l’eco di una voce lontana per poi uscire da una finestra sul retro della Casa Bianca.
Gli Stati Uniti vogliono la pace, dell’Europa orientale non ne vogliono più sapereWashington segnala il suo disinteresse in maniera così esplicita da oltrepassare anche la logica: le parti contraenti investite di diritti ed obbligazioni (anche senza consultazione) sono “Ucraina, Russia ed Europa” (punto 2). Gli USA scompaiono in quanto attori interessati in Europa orientale e si dichiarano definitivamente neutrali nell’estero vicino russo. Nel punto 4 si parla di un dialogo “tra Russia e NATO, mediato (?!) dagli Stati Uniti” per risolvere i loro disaccordi in fatto di sicurezza. Washington sembrerebbe non essere neppure più un membro dell’alleanza che invece è sempre stata la sua longa manus in Europa. Un caso di dissociazione unico nel suo genere.
Al limite, Trump accetta il ruolo di supervisore stipendiato (quale onere). Al punto 10 si definiscono infatti le tariffe per il servizio di sicurezza fornito a Kyiv, al punto 14 i profitti che gli europei dovrebbero gentilmente dirottargli per mezzo degli asset finanziari russi congelati nelle banche europee (e che fino a ieri nessuno da questa parte dell’Atlantico voleva toccare). Se non altro, sempre al punto 14 si delinea come, infine, anche la Russia pagherà la sua quota di riparazioni. Gli unici a pagare senza un motivo precisato siamo noi, ma ormai non dovrebbe essere una novità.
Dal canto loro, gli Europei non possono dire di volere la pace, perché l’unica pace possibile è oggi una pace ingiusta. E dunque sono rimasti in silenzio in questi mesi, e ora sono nuovamente costretti ad inseguire l’iniziativa altruiIl motivo è però presto spiegato: si sono fatti alfieri della posizione massimalista ma sono i più ininfluenti, ululano rabbiosi alla luna. Una totale contraddizione in termini che la dice lunga sulla nostra sensibilità diplomatica. Per cambiare le sorti del conflitto dovrebbero infatti (avrebbero dovuto) stravolgere all’inverosimile i bilanci finanziari per rivoluzionare la capacità industriale (o, più probabilmente, saremmo finiti a finanziare quella americana). E, più prima che poi, dovrebbero mandare uomini, in grande quantità, per coprire gli oltre 1000 chilometri del fronte.
Tutto ciò è mai stato realistico? La domanda è veramente retorica, tranne forse per gli irriducibili più forsennati che oggi gridano al tradimento in ogni direzione. Pertanto, ora che la realtà incombe, sta calando il gelo: gli equilibri non mutano, e se lo fanno, è per il peggioRifiutare la pace ingiusta oggi significa impegnarsi ad accettare una pace più ingiusta domani; accettare la pace ingiusta oggi significa ammettere una sconfitta di civiltà, nel momento in cui la missione auto-intestata è quella di crociati dell’Occidente.
La posizione di Mosca invece è chiara, e per una volta, stabile. Almeno dal 1997, quando la sovranità ucraina venne riconosciuta in termini di consenso politico, se e solo se “non ostile” alla Federazione Russa. Così recita il documento o, meglio, recitava, perché le note recriminazioni sulle leggi linguistiche, gli accordi e le promesse con NATO, Stati Uniti e Unione Europea sono state interpretate da Mosca come una competizione per la fedeltà ucraina che stracciava tutte le basi politiche sottostanti il trattatoQuindi, la sovranità ucraina (una pace stabile) può solamente essere riconsiderata in un contesto politico di non-ostilità. L’unica alternativa considerabile è la sottomissione.
Ed è qui che arriva quella mossa che solo gli Stati Uniti di Trump possono ammettere: al punto secondo si immagina un patto di non-aggressione onnicomprensivo, al quale segue l’espressione “tutte le ambiguità degli ultimi 30 anni saranno considerate risolte”Dalla fragilità si passa alla fantapolitica: non solo il documento ambisce a riconciliare le profonde divergenze sulle realtà future, ma ambisce anche a riordinare il passato. L’unico scenario che può riconciliare Stati Uniti e Russia sul nodo europeo è la rinuncia alle aspirazioni universalistiche di espansione globale dell’impero americano. Fantapolitica. Se non fosse che si tratta di Donald Trump, imperialista solo in casa sua. E infatti subito sotto si afferma che “la Russia non invaderà nazioni vicine e la NATO non si espanderà ulteriormente”; questa volontà dovrebbe essere inserita nello Statuto dell’Alleanza (davvero? Bruxelles, Parigi, Londra, cosa ne pensano? Si piegheranno al fatto compiuto come fu per la decisione avviare le trattative con Putin?). La neutralità sarebbe messa in costituzione dall’Ucraina, e, equamente, la volontà di non-espansione dovrebbe essere fatta legge alla Duma (punto 16).
Ma è proprio questa la novità più scioccante: trattare il nemico autocratico come se fosse moralmente eguale a sé, considerare l’espansione dei due blocchi come se avesse uguale natura e uguale capacità di aggiudicarsi una giustificazione divina. Fa quasi strano, in mezzo alla tracotanza della retorica trumpianavedere un distillato così puro (e così desueto nella diplomazia occidentale) di etica del dialogo con chi è diverso da sé. Ovviamente, basta poco per smorzare gli entusiasmi, perché non si rischia molto a dire che la posizione americana non è sostenuta da una particolare riflessione morale, bensì da un mero calcolo economico e strettamente autocentrato sulle esigenze nazionali (formula che nel lessico del Leviatano liberale ha finito di essere considerata all’incirca dopo i dibattiti del The Federalist).
Gli europei si raccontano invece una pace giusta e durevole. Combinano un’apparenza di quell’approccio da supervisori esterni e superiori ereditato dai Balcani (e di cui erano intrisi anche gli Accordi di Minsk), col nuovo approccio dell’assedio, per cui nessuna richiesta è mai troppo previdente, troppo sbilanciata di fronte alla minaccia. L’unica, forse indebita, speranza, si riferisce all’ultimo punto (che, ancora una volta, mescola aspetti del nuovo e del vecchio): una nuova conferenza per la sicurezza in Europa su base OSCE. Si tratta della formulazione europea della rinuncia all’espansione senza limiti. Una formulazione classica, storicamente proposta principalmente dalla Russia, e pertanto solitamente esclusa a priori se non dagli europei più coraggiosi. Tra essi, la vituperatissima Merkel, e l’azzardatissimo Macron del suo primo mandato.
Passando alle questioni interne, fa specie l’assenza totale delle questioni attinenti ai diritti umani nella proposta che potrebbe segnare la nascita ufficiale dell’Europa geopolitica. Qui si sostanzia l’espressione sovranità non ostile: un colpo all’onore per Kyiv? Dipende dai propri standard. Due disposizioni spiccano nel piano Trump (punto 20). Una è l’obbligo per l’Ucraina di adottare gli “standard UE” per quanto riguarda la tolleranza religiosa e la protezione delle minoranze linguistiche. Non facile per una nazione che negli ultimi vent’anni ha applicato con forza un approccio molto diverso (tra le tante controversie che ha generato, quelle di Human Rights Watch, giusto un mese prima dell’invasione). Ma d’altronde, il rispetto dei diritti umani è sempre stato un tema spinoso negli stati di nuova indipendenza dell’Europa orientale. In ordine sparso a tal proposito, si ricordano le posizioni OSCE (reiterate) ed HRW (reiterate anch’esse) espresse durante gli anni Novanta.
Sempre al punto 20 si legge la proibizione di ogni ideologia e attività nazista. Non pare nemmeno necessario ricordare in dettaglio l’enorme numero di narrazioni, accuse reciproche e controversie sulle posizioni della destra ucraina, di gruppi militari, e dell’eventuale diffusione di queste idee nella società ucraina. Un esempio su tutti: il celeberrimo slogan slava ukraïni” (“Gloria all’Ucraina”). Comparso nel diciannovesimo secolo, prese popolarità nella guerra d’indipendenza prima, e poi tra le file dei filonazisti capitanati da Stepan Bandera, conoscendo nuova diffusione nelle proteste di Euromaidan; difficile però pensare che l’anonimo ucraino medio scontento per il carovita avesse un legame profondo con ideologie e movimenti del passato, che alle coeve elezioni prendevano percentuali risicate (seppur rilevanti). Peraltro, ancora la nebbia di guerra offusca la lucidità di molti su un tema tanto incendiario quanto scivoloso e ambiguo. Come si misura la fedeltà a un’ideologia attraverso uno slogan imparato per sentito dire? 
Ambigua è anche l’immaginazione delle parti sulla futura applicazione di questo principio. Illuminante è l’esempio storico dal quale l’articolo è tratto: il Trattato di Amicizia e Cooperazione fra Finlandia e URSS del 1948 (articolo 8). Uno degli esempi migliori di risoluzione permanente di un conflitto sul confine russo, se c’è una speranza positiva che si può coltivare. Ma ad oggi, parlare di speranze, così come di stabilità, è impensabile.
Si tace per brevità sulla questione territoriale, la cui irrisolvibilità è ampiamente dimostrata dalla conformazione del fronte attuale, così come sulle clausole economiche, che prevederebbero la piena reintegrazione russa nel club delle grandi potenze economiche del mondo. Un discorso a parte lo meriterebbero anche le garanzie di sicurezza: questo documento è un memorandum, come quello di Budapest del 1994, che rappresentava la base (non) giuridica dell’impegno russo-americano all’inviolabilità dei confini ucraini. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
In tutto questo, dov’è Zelensky? Il presidente ucraino tenta di trasferire al suo popolo la situazione di assedio personale che vive lui stesso in queste settimaneAl punto 25 si promettono elezioni nei 100 giorni successivi alla tregua. Mosca sorride beffarda, soprattutto nel contesto dell’ultimo enorme scandalo di corruzione attorno a Zelenskypratica standard in Ucraina come in tutte le democrature post-sovietiche, ma specialmente fastidiosa quando si tratta di dover morire per le latrine dorate degli amici del Presidente. Ma d’altronde, in una democrazia, si possono evitare le elezioni ad libitum per non far piacere ai nemici? Domanda rischiosa, non citofonate a casa Kissinger, o Eisenhower.
Uno scandalo il cui tempismo ha colpito anche gli osservatori più scettici. C’è chi sussurra, anzi, che sia stato imbeccato proprio da Washington, per un’operazione estremamente ambiziosa che in effetti stona con la scarsissima capacità finora dimostrata delle agenzie anticorruzione ucraine (create, formate e finanziate dagli Stati Uniti). A dirlo in maniera più esplicita, paradossalmente, sono stati prima i russi degli europeiattraverso la sufficientemente allineata TASS. Per il resto, Kyiv non può che trattare, essendo in realtà la sua guerra… non sua, ma concessione, ora ripensata, dell’alleato americano.
Il presidente ucraino ha scelto di drammatizzare fortemente una situazione, ancora una volta, ampiamente prevedibile e rimandata (scacciata) più volte dalla mente di tutti noi. L’orgoglio dell’isolamento dei giusti contro il rischio del panico generalizzato. Certamente, gli accorati appelli alla giustizia non sono la tattica dei forti. Ma il problema è un altro. L’alternativa è fra non-ostilità alla Russia o guerra esistenziale: se la prima viene letta come sottomissione, allora non c’è speranza di soluzione.
Allo stesso modo, lo sdegno per le formulazioni ambigueSe non c’è fiducia, tutti gli accordi sono troppo ambigui. Non c’è accordo diplomatico nella storia che non sia pieno di ambiguità. La differenza la fanno non i contenuti, ma la marcescenza totale delle relazioni tra le parti. Nessun trattato può iniziare ammettendo la possibilità di espansione illimitata di una delle parti, ma, ad oggi, nessun trattato può considerare morale né sicura l’equa delimitazione dell’influenza politica delle parti.
Parlare di fiducia è oggi in effetti ridicolo. Ma dove non c’è fiducia c’è guerra, e alla Russia questo non sta nemmeno troppo male. Vuole dimostrare il proprio agio nella scelta bellica anche l’Europa, che riprova la via del coinvolgimento diretto in una versione che spera di passare sottotraccia: infatti. tra i tanti “vorrei, ma non posso” spunta un impegno concreto nel proporre una forza di peacekeeping permanente in territorio ucraino (in contrasto frontale con la proposta americana).
Eppure, la pace si fa coi nemici, anche se non ci piacciono: pare ridicolo anche solo doverlo ricordare. D’altronde, se ci piacessero, non avremmo avuto di che litigarci. Ma probabilmente ora è solo il momento della gestione del danno, della resistenza disperata alle isterie, agli assedi della nostra mente. Il tempo della fiducia si è purtroppo dissolto da tempo; ora bisogna solo mantenere quelle condizioni minime affinché, in un futuro lontano, si possa tornare alla calma.

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