I padroni dell’odio, di Antonio Polito

Il «free speech» è quello dei miei amici; lo «hate speech» è quello dei miei nemici. Facile, no? Orientarsi nel dibattito pubblico americano sembra diventato maledettamente complicato (e pericoloso). Però potete usare la legge che abbiamo appena indicato come una bussola che tutto spiega. È come ai tempi delle guerre di religione: gli eretici sono sempre gli altri. La destra dice: hanno ucciso Charlie Kirk, eroe Maga e uomo libero, perché senza peli sulla lingua smontava i tabù del politicamente corretto. Di conseguenza i Maga chiudono la bocca, fanno licenziare o minacciano di cause miliardarie singole persone, giornali ed emittenti che contestino o irridano le loro opinioni sul delitto Kirk; come è successo al comico Jimmy Kimmel, del quale la Abc, proprietà Disney, ha sospeso lo show televisivo per una battuta (peraltro non ben riuscita). Voi direte: ma per giudicare se il discorso sia «libero» o «di odio» basterebbe valutare la realtà dei fatti. Vi sbagliate. Prendiamo la scritta «Bella Ciao» su uno dei proiettili del giovane che ha sparato a Kirk. Per la destra Maga il richiamo a un canto «resistenziale» è la prova che l’attentatore è di sinistra; per la sinistra Antifa è la prova che frequenta videogiochi di estrema destra, dove quello stesso slogan è usato sarcasticamente.
D’altra parte, è da un bel po’ che nel fantastico mondo di Trump «non esistono notizie false, ma solo fatti alternativi». Qualche mese fa, in febbraio, il vicepresidente americano, J.D. Vance, venne fino a Monaco di Baviera per impartire una lezione agli europei: «Qui da voi la libertà di parola sta regredendo», disse dal palco di una conferenza ad alto livello sulla sicurezza. Durante il Covid l’amministrazione Biden, accusò, incoraggiava aziende private «a mettere a tacere le persone che esprimevano la loro opinione». Disse pure che «la minaccia che mi preoccupa di più non è la Russia, non è la Cina, ma il ritiro dell’Europa da alcuni suoi valori». Un capolavoro di discorso: uno «hate speech» dentro un «free speech», praticamente un «free hate».
Neanche sette mesi dopo questo nobile appello alla libertà di parola del suo vice, The Donald minaccia di ritirare le licenze alle tv ostili: «Il 97% è contro di me». E l’uomo che ha messo a capo della Commissione federale per le comunicazioni, Brendan Carr, chiamato anche il «censor-in-chief», ha annunciato ulteriori rappresaglie: «Con l’ecosistema dei media non abbiamo ancora finito».
Che fare? Innanzitutto ringraziare la Provvidenza che ci ha finora evitato, in questo nostro tutto sommato fortunato Paese, di finire in un tale disastro politico-culturale, nonostante i molti tentativi di emulazione. Ma poi studiare gli antidoti, per evitare di cascarci in futuro.
Il primo consiglio è il seguente: più importante dello «speech» è l’«audience». Ciò che conta non è tanto ciò che viene detto, ma come viene ascoltato e compreso. Bisogna cioè capire quanta faziosità si possa somministrare a un pubblico prima che qualcuno vada in overdose.
Da questo punto di vista non possiamo stare tranquilli. Da molto tempo ormai, purtroppo, il moralismo ha preso il posto della politica qui in Italia; e dunque l’opinione pubblica è stata allenata a giudicare sempre di meno in base a criteri che, essendo politici, sono per definizione opinabili. Oggi il (pre)giudizio è invece prima di tutto etico, dunque irrigidito al massimo, fino al limite dell’intolleranza. Da trent’anni, e ancor di più negli ultimi dieci, il dibattito è ormai sintonizzato su due sole frequenze: indignazione o intrattenimento. Invettiva o satira. E infatti i comici inveiscono e i politici provano a fare i comici. In alcuni casi non si distingue più l’uno dall’altro, come il «De Luca-Crozza», un essere bifronte insieme politico e comico.
Lo spazio per un’opinione semplicemente e banalmente differente non è più contemplato. Se non sei d’accordo con le mie idee, delle due l’una: o sei prezzolato, pagato da qualcuno, o sei rimbambito e disinformato. Un tempo a Londra c’era l’angolo di un parco pubblico, «Hyde Park Corner», per il «free speech»: chiunque poteva salire su uno sgabello e arringare la folla dei passanti su ciò che voleva. Bello ma innocuo. Oggi qualsiasi discorso, anche il più stupido e meno motivato, mobilita folle, perché al posto dello sgabello c’è il Web.
Dunque, se vogliamo vaccinarci (vaccinazione non obbligatoria, intendiamoci, ma consigliata) dobbiamo iniziare con lo spezzare questo duopolio invettiva/satira. Ridando spazio e dignità all’argomento, alla spiegazione e al giornalismo indipendente (sì, indipendente). Tornare a una pedagogia del pubblico che lo induca ad accettare il contraddittorio come segno distintivo della democrazia; che funziona solo se io posso sperare di convincere un giorno chi non la pensa come me e viceversa.
La deriva moralistico/indignata della vita pubblica in Occidente rischia di essere suicida. Innanzitutto facendoci dimenticare che non troppo lontano da noi chi dissente viene messo in carcere, mandato in Siberia, avvelenato o ucciso. E che la libertà di parola è perciò un bene troppo prezioso per sperperarla nell’odio.

corriere.it/opinioni/25_settembre_19/i-padroni-dell-odio-aeb0bfae-a88c-477f-a1b9-45b68561fxlk.shtml

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