Cinque miliardi di dollari. Lunedì, mentre a Tianjin i Paesi del Sud del mondo guidati dalla Cina lanciavano la sfida agli Stati Uniti e a tutto l’Occidente e mentre Narendra Modi camminava tenendo per mano Vladimir Putin, Donald Trump, massimo responsabile di questo disastro diplomatico e geostrategico, era impegnato a misurare la ricchezza conquistata quella mattina con la sua ennesima criptovaluta: in poche ore la quotazione del Wlfi, per un quarto di proprietà della sua famiglia, ha fatto crescere (sulla carta, vietato incassare subito) il patrimonio dei Trump di una cifra superiore al valore dell’intero impero immobiliare che il tycoon divenuto presidente ha messo insieme in decenni.
Più che America First, Trump First. Ogni giorno uno choc ma, a ben vedere, c’è poco da meravigliarsi: un anno fa, vigilia delle presidenziali, mentre prometteva di richiamare all’ordine Putin mettendo fine alla guerra in Ucraina in 24 ore, minacciava Xi Jinping e annunciava una nuova era di supremazia americana nel mondo, Trump aggiungeva al suo Make America Great Again le parole «con le criptovalute» e lanciava World Liberty Financial, la sua cryptocompany.
In sette mesi di governo Trump ha terremotato coi dazi i rapporti con gli alleati storici degli Usa, si è mostrato impotente, se non succube, nei confronti di Putin al quale ha regalato ad Anchorage una sontuosa riabilitazione e sta ridando forza anche alla Cina: dal muro contro muro, l’embargo sui chip e l’export di Pechino di fatto bloccato coi dazi al 145 per cento, ai «penultimatum» lasciati scadere senza conseguenze mentre cade il blocco dei microprocessori. Ma il capolavoro Donald l’ha fatto con Modi. Decenni di politiche dei governi democratici e repubblicani Usa volte a fare dell’India un baluardo contro l’espansionismo cinese in Asia distrutti con un tratto di penna: la sua firma sull’ordine che aumenta al 50 per cento i dazi imposti al gigante del subcontinente asiatico fino a ieri assiduamente corteggiato.
L’Europa, dipendente dagli Usa oltre che per i legami storici e politici, sfilacciati nell’era Trump, per la mancanza di un suo sistema di difesa in anni segnati da nuovi venti di guerra, assiste con crescente sconcerto alle sortite di un leader che non si limita a concentrarsi sul’obiettivo del massimo arricchimento degli Stati Uniti, ma, davanti allo spettacolo della saldatura Xi Jinping-Putin-Kim Jong. Un alla parata militare di Pechino, non trova di meglio che reagire con stizza accusando tre leader da lui in passato diversamente corteggiati, di cospirare contro gli Stati Uniti.
Ai 25 Paesi che rappresentano la metà dell’economia globale presenti a Tianjin, Xi Jinping ha proposto di creare una governance globale alternativa a quella a guida occidentale che ha dominato gli 80 anni del Dopoguerra. Quella leadership, in realtà, si sta sfarinando dall’inizio del secolo. E già tre anni fa, quando ancora era fortissima la condanna planetaria per l’invasione russa dell’Ucraina, era apparso chiaro che, anche se riuscivano ancora a mettere insieme una maggioranza nelle votazioni all’Onu, per Europa e Stati Uniti era sempre più difficile coinvolgere il Sud del mondo nell’impegno a favore di Kiev, isolando davvero Mosca. Ma una vera alleanza organica in chiave anti Occidente dei Brics sembrava improbabile, visti la storica ostilità tra India e Cina, il timore di Mosca di essere schiacciata da Pechino e gli altri conflitti latenti tra potenze regionali.
Anche se quelle difficoltà permangono, oggi lo scenario di un’alleanza contro l’Occidente, le sue regole, lo Stato di diritto, diventa meno improbabile per via di tre fenomeni — la mancata divaricazione tra Mosca e Pechino, l’avvicinamento dell’India alla Cina e le divaricazioni tra Europa e Stati Uniti — sui quali Trump ha avuto grande peso. Lui e il suo team: il recupero del rapporto con Putin, fortemente desiderato da Donald, è stato caldeggiato anche dai suoi consiglieri. Pensavano fosse quello il mondo migliore per allontanare il presidente russo da Xi Jinping. È avvenuto l’opposto. Mentre alla devastazione del rapporto Usa-India dovuta al raddoppio dei dazi, si è aggiunta quella dell’insulto gratuito a una nazione molto orgogliosa, lanciato da Peter Navarro, stretto collaboratore di Trump: ha definito l’India «niente altro che la lavanderia della Russia».
Abbiamo stigmatizzato gli eccessi di Trump, ironizzato sulle sue manie, criticato il suo concentrarsi su campagne a fini interni, dai dazi alla guerra agli immigrati, sperando sempre che qualcuno l’avrebbe prima o poi frenato e illudendoci che nel dopo Trump tornerà, se non proprio il vecchio ordine, qualcosa di simile. È tempo di prendere atto che anche con quello che il presidente fa all’interno e per sé stesso, sta minando il peso dell’America nel mondo. Vale per i dazi che portano entrate ma sfasciano alleanze, vale per l’arricchimento da criptovalute basato anche su investimenti miliardari di Paesi, soprattutto del Golfo, che vogliono ingraziarsi il presidente degli Stati Uniti, e vale perfino per la stretta sugli immigrati grazie alla quale — con Europa e Giappone già da tempo in crisi di denatalità — per la prima volta nel 2025 anche gli Usa vedranno calare la loro popolazione. Lo certifica l’indagine dell’American Enterprise Institute, centro ricerche dei conservatori: non era mai successo, nemmeno durante le guerre mondiali, la Guerra civile coi suoi 700 mila morti, l’influenza spagnola, il Covid. Ci sta riuscendo Trump: mutamenti demografici dal forte impatto economico e politico.
Ed è meglio non illudersi in un ritorno all’antico, finito il regno di Donald: il mondo è cambiato, cresce il ruolo della Cina, ma anche quello di potenze regionali come Turchia e Indonesia. Mentre la sostanziale mancanza di reazione — politica, del mondo degli affari, della stessa società americana — agli enormi abusi di potere ostentati da Trump e ai suoi incredibili arricchimenti non fa molto ben sperare per il futuro.
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