Attribuire a una vittoria della diplomazia il «cessate il fuoco» raggiunto a Gaza a 733 giorni dal massacro compiuto il 7 ottobre 2023 in Israele è un abbaglio che può impedire di capire come è cambiato il mondo negli ultimi anni. A contare non è soltanto che la guerra era stata aperta da una organizzazione giudicata terroristica negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, non da uno Stato dotato di ambasciatori. Quello diventa perfino un dettaglio.
É che a favorire un isolamento di Hamas e l’avvio effettivo (speriamo) di un percorso per la fine delle ostilità sono stati due fattori. Il primo: che Israele è passata dalla sconfitta del 7 ottobre 2023 a un ulteriore rafforzamento del proprio ruolo di potenza militare in Medio Oriente, seppure al prezzo di isolamento nelle Nazioni Unite. Il secondo: che Paesi islamici a maggioranza sunnita hanno spinto all’accordo la sunnita Hamas, indebolita, per la quale almeno finora ha perso parecchia efficacia l’appoggio degli ayatollah sciiti di Teheran, militarmente e politicamente meno potenti dopo il crollo del regime Assad in Siria e i bombardamenti israeliani e americani sull’Iran.
Altro che successo della diplomazia. Gran parte delle trattative per il cessate il fuoco è stata condotta dagli Stati mediatori attraverso i rispettivi servizi segreti. É valso per l’Egitto rappresentato da Hassan Rashad che dirige il Mukhabarat, per la Turchia che all’incontro di Sharm el Sheik ha mandato il direttore dell’Intelligence Nazionale Ibrahim Kalin. Oltre a un ministro dalla forte caratura politica, Ron Dermer, Israele aveva nella delegazione due funzionari dello Shin bet coperti da anonimato, «Agente D» e «Agente M». Per gli Usa, i negoziati sono stati affidati da Donald Trump a Steve Witkoff, immobiliarista, e Jared Kushner, genero del presidente che inventò gli «Accordi di Abramo» tra Stati arabi e Israele.
Irrilevante è risultata l’Onu, organizzazione che dovrebbe salvaguardare la pace e della quale nessun emissario a Gaza, nel corso del tempo, aveva denunciato la costruzione di centinaia di chilometri di gallerie per custodia di arsenali. Per colpa dei suoi Stati membri, che non si sono sforzati di raggiungere posizioni comuni capaci di incidere sulla realtà, neppure ornamentale è stato il ruolo dell’Ue, divisa poi da Emmanuel Macron con la campagna per riconoscere uno Stato palestinese privo di un gruppo dirigente affidabile e rappresentativo.
Anche se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accettato l’accordo di Sharm el Sheik perché sottoposto a pressioni da Trump, ha potuto farlo perché dopo la guerra cominciata da Hamas nel 2023 Israele è oggi dal punto di vista militare una potenza regionale molto più di prima, malgrado sue debolezze politiche, e l’influenza dell’Iran è al momento ridimensionata. Questo avviene in un mondo che Donald Trump, a differenza di Joe Biden, non vuole lasciare come aveva trovato. Al piano del presidente statunitense per il cessate il fuoco un consenso determinante è arrivato, il 5 ottobre scorso, con una dichiarazione dei ministri degli Esteri di Turchia, Giordania, Emirati Arabi, Indonesia, Pakistan, Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. Nello spingere Hamas a rilasciare gli ostaggi israeliani e a fermare le armi, gli otto Paesi per lo più sunniti mettevano agli atti, tra l’altro, di non accettare alcuno «spostamento» della popolazione palestinese da Gaza nei rispettivi territori.
Ingenuo sarebbe non notare che il 5 ottobre è successivo al 9 settembre, il giorno nel quale l’aviazione israeliana ha cercato di eliminare tutti i negoziatori di Hamas riuniti a Doha, Qatar, Stato arabo di spiccata spregiudicatezza che ad Al Udeid ospita la più grande base militare americana in Medio Oriente. Brutale, al di fuori del diritto internazionale, il messaggio di Netanyahu è stato comunque evidente e recepito: la lotta ad Hamas sarà senza tregua e senza quartiere, come in Libano abbiamo fatto fuori il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, a Teheran generali iraniani, in Yemen parte di governo e stato maggiore, nella regione la nostra superiorità militare va temuta dovunque.
Certo, che il sangue di civili palestinesi scorso a Gaza sia stato tantissimo, calcolabile in ogni caso in decine di migliaia di morti tanti dei quali bambini, che la società israeliana sia provata dalla guerra più lunga nella sua storia, ha avuto un peso e lo avrà. Ma l’accordo di Sharm el Sheik, per quanto auspicato, conferma purtroppo la crisi del multilateralismo tradizionale. E fa cadere veli che a troppi occhi europei coprono quanto, in un mondo multipolare, contano sempre più i rapporti di forza. C’è da sperare che diplomazia e politica riescano a raffinare, e a rendere percorribile, il tragitto per una pace futura a Gaza e dintorni. Abbozzato finora da altri esperti, alcuni più sommari, altri dotati di familiarità con armi e trame maggiore rispetto a quella con i trattati.
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