L’intervento di Giorgio Vittadini sulla crisi della democrazia e sulla cultura della sussidiarietà, pubblicato su “Avvenire” lo scorso 14 ottobre , coglie un punto decisivo: la stanchezza della democrazia nasce dal logoramento del legame tra libertà e giustizia sociale. Ma la sussidiarietà, da sola, non basta: dev’essere parte di un progetto politico e culturale di rinnovamento democratico, fondato sulla dignità della persona, sul valore del lavoro e sul bene comune.
Oggi il vuoto più profondo non è solo istituzionale, ma culturale. I partiti hanno smarrito le radici ideali che li legavano alle grandi tradizioni di pensiero – liberale, socialista, cattolico-democratica – dissolvendo i riferimenti etici che davano senso alla vita pubblica. È nata una politica dell’immediatezza, che comunica senza pensare e decide senza ascoltare. Dove in Europa sopravvivono culture riformatrici, in Italia resta un vuoto ancora irrisolto, che alimenta personalismi e populismi.
In questo spazio la sussidiarietà deve ritrovare una dimensione politica: restituire alle persone la coscienza di appartenere a una storia e di concorrere a un destino comune. Vedo nella sussidiarietà non una contrapposizione allo Stato, ma un principio di corresponsabilità. Essa nasce dagli articoli 2 e 3 della Costituzione: la persona nella rete delle relazioni e la Repubblica impegnata a rimuovere gli ostacoli alla libertà e all’uguaglianza. Una sussidiarietà separata dalla giustizia sociale maschera l’arretramento del pubblico; una sussidiarietà integrata, invece, rafforza la capacità pubblica e riconosce le comunità come partner del bene comune.
La prossimità è fondamentale, ma non sufficiente. Le sfide globali – potere dei dati, crisi climatica, precarietà – non si governano solo dal basso. Serve una nuova architettura multilivello: comunità solidali, istituzioni pubbliche capaci e una dimensione europea che garantisca diritti globali. Senza questa scala integrata, la sussidiarietà resta un mosaico di esperienze virtuose ma impotenti. Non credo alla contrapposizione tra Stato e società civile. Serve uno Stato capace, non minimo: garante dei diritti universali – sanità, scuola, casa, lavoro dignitoso – e aperto alla cooperazione con le forze vive della società. Dove il pubblico arretra, la sussidiarietà si deforma in privatismo caritatevole e si spezza il patto sociale.
I corpi intermedi, infine, non possono essere gusci vuoti: devono tornare luoghi di formazione e cittadinanza attiva. Solo se uniscono pensiero e responsabilità, la sussidiarietà diventa partecipazione reale e non gestione di servizi. Il lavoro resta il banco di prova della democrazia. Ricostruire una società del lavoro dignitoso significa ridare senso alla cittadinanza. L’articolo 1 non è solo un fondamento, ma un progetto politico: rimettere il lavoro al centro di un’economia che non sacrifichi la persona all’efficienza. Sussidiarietà e democrazia possono rinascere solo insieme, attraverso una prossimità responsabile: ascolto, cura, impegno condiviso. La democrazia non si difende solo con le regole, ma con le relazioni, il lavoro e la giustizia. La sussidiarietà da sola non basta ma senza di essa – quella autentica, che nasce dalla persona e si fa comunità – nessuna democrazia potrà rinascere.
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