Il consesso internazionale convocato a Sharm el-Sheik aveva avuto una tentazione: firmare un accordo di pace senza invitare israeliani e palestinesi, i protagonisti, i diretti interessati. L’idea non era del tutto stravagante: sono sempre stati loro, ora l’uno ora l’altro, ad aver fatto fallire ogni processo o piano di pace, a partire dal 1948. Per quanto dal sapore coloniale, l’imposizione di un accordo era l’unico tentativo non ancora sperimentato.
Ma è impraticabile, il diritto internazionale non lo prevede. Così Abdel Fattah el Sisi, presidente egiziano e ospite del vertice sul Mar Rosso, ha invitato prima Mahmud Abbas, nom de guerre Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Nazionale palestinese di Ramallah; e poi il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Il primo, che non conta nulla, ha accettato con entusiasmo l’inaspettato regalo; Netanyahu, notoriamente un laico – non porta mai la kippah – ha usato come scusa la festività religiosa di Simchat Torah, ed è rimasto a Gerusalemme.
Il leader israeliano si sarebbe trovato circondato da arabi ed europei più che favorevoli alla soluzione dei due stati, per chiudere il lungo conflitto con i palestinesi. Netanyahu è radicalmente contrario per più di un motivo: soprattutto perché ha costruito la carriera opponendosi a quella soluzione (solo una volta, nel 2009 all’università di Bar Ilan, la ipotizzò per opportunismo politico); e se lo facesse il suo governo cadrebbe immediatamente. Bibi non è sicuro di riuscire a formare una maggioranza diversa da quella attuale, con gli estremisti religiosi.
Come il “Piano Trump” per la fine della guerra e la ricostruzione di Gaza, anche il documento firmato a Sharm el-Sheikh è vago sul futuro più lontano e dunque sullo stato palestinese. La guerra è finita (o sospesa), ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi sono stati liberati: ora il passo successivo, già in corso, è che gli aiuti umanitari raggiungano la popolazione affamata e non Hamas e il sempre più attivo mercato nero.
Seguirà poi il disarmo del movimento islamico e un ulteriore ritiro israeliano. Poi dovrà essere raggiunto l’ancora più difficile obiettivo di garantire stabilità alla striscia con una forza multinazionale, principalmente a partecipazione e guida araba: dovrà assicurarsi che Hamas non sia più presente e impedire che sia sostituito dai gruppi armati dei clan locali. Infine dovrebbe incominciare la ricostruzione, il vero grande business del piano: un obiettivo che durerà decenni.
Il nome del vertice a Sharm el-Sheikh è “Gaza Summit”: non impegna la Cisgiordania occupata né l’indipendenza palestinese. Ma è evidente, che invitando Abu Mazen (e l’assenza di Netanyahu), il vertice internazionale voglia implicitamente indicare l’obiettivo politico finale di questo lungo processo: uno stato palestinese.
Questo obiettivo può emergere con chiarezza dalla sua condizione di eterno sottinteso solo con l’aiuto di Donald Trump: quando il presidente deciderà di uscire dall’ambiguità sul problema di fondo del conflitto. Ogni pace sarà a tempo determinato fino alla sua soluzione.
Il suo scalo israeliano, prima dell’Egitto, è stato un trionfo di adulazione israeliana e di usuale vanità trumpiana: alla Knesset, il Parlamento, Netanyahu e gli altri hanno fatto a gara nell’invocare il Nobel per la pace 2026 per il presidente americano. Nel suo lungo discorso Netanyahu ha fatto capire che uno stato palestinese non nascerà mai: la Cisgiordania occupata è e resterà per lui la Giudea e la Samaria ebraiche.
Nel suo intervento, ancor più lungo, Trump ha parlato di un’epoca di pace nuova. “The time of fight, fight, fight is over”, è finito il tempo di combattere senza sosta, ha detto il presidente, rivolgendosi direttamente all’israeliano che, come al solito, aveva impostato il suo discorso sulla sicurezza e la forza militare dello stato ebraico.
Se mai si arriverà alla trattativa per uno stato palestinese, non sarà il novantenne Abu Mazen e forse nemmeno il politicamente immortale Netanyahu a farla. Entrambi lotteranno per salvare il loro potere, a volte compromettendo il negoziato. Per raggiungere un risultato così lontano e difficile, servirà aria nuova e un’altra generazione di leader.
ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/2025/10/14/aspettando-nuovi-leader/