Il cessate il fuoco è stato il primo passo, essenziale ma fragile. Perché la tregua si rafforzi, occorre che israeliani e iraniani affrontino le cause del conflitto. Serve dunque un armistizio che imponga ai due nemici un impegno scritto (per ora è solo una tregua verbale) e una firma che li obblighi a una trattativa. Ora è troppo presto, i due nemici sono ancora impegnati a dare fiato alla propaganda: vittoria, dicono gli iraniani; distrutto il programma nucleare di Teheran, dicono gli israeliani.
Un nuovo Medio Oriente è ancora lontano. Se tuttavia si riuscisse a consolidare la cessazione delle ostilità, senza pretendere di chiamarla pace, qualche passo in quella direzione verrebbe fatto. Distrutto o ritardato che sia, il programma nucleare iraniano è il primo punto di ogni trattativa, seguito da un accordo sul suo arsenale missilistico convenzionale. Quello che Israele dovrebbe invece fare è consentire un orizzonte negoziale per la questione palestinese. Non è un fronte di crisi diverso: la giustificazione principale del militarismo iraniano e delle milizie alleate– sincera o pretestuosa che sia – è la liberazione della Palestina.
Un armistizio fra Israele e Iran è dunque un obiettivo distante, molto di più la soluzione dei due stati. Questa breve guerra ha comunque già provocato risultati e dinamiche per qualche cambiamento a più breve termine.
Iran. L’uomo che cambiò l’Unione Sovietica, illudendosi di poterla solo riformare, fu Mikhail Gorbaciov, il segretario generale del Pcus e leader del paese. La vecchia guardia del partito cercò di fermarlo con un golpe; e chi lo impedì, eliminando definitivamente il sistema sovietico, confini, inno e bandiera compresi, fu Boris Eltsin, ex segretario del Pc di Mosca. E’ così che cambiano i sistemi. Un’alternativa fu il disastro dell’occupazione americana dell’Iraq.
Americani e israeliani non dicono più di voler cambiare il regime a Teheran: il loro obiettivo, affermano ora, era distruggere o ritardarne il programma nucleare. Ma la tentazione resta forte e pericolosa sulla strada del consolidamento di un cessate il fuoco. La fine del regime degli ayatollah, una sua profonda riforma o la sua sopravvivenza, riguarda gli iraniani. Farlo da fuori, in un paese così grande e complesso, potrebbe far precipitare l’Iran in un caos ancor più pericoloso per la stabilità regionale.
Quando taceranno i tamburi dell’inesistente vittoria, è probabile che il regime affronti una fase difficile. Tra il presidente moderato Masoud Pezeshkian e l’ala militarista della rivoluzione già si scorgono attriti.
Israele. Assorbito l’inaspettato ordine americano di fermare i bombardamenti, Bibi Netanyahu guarda al suo futuro. I sondaggi lo danno in crescita. Quello più autorevole dell’Inss, l’Istituto per la sicurezza nazionale, indica una risalita sensibile dal 22 al 30%. Aeronautica e Mossad, i vincitori della guerra, superano l’80. Ma trasformato quel 30 in percentuale elettorale, nel sistema proporzionale israeliano Netanyahu sconfiggerebbe qualsiasi candidato dell’opposizione. Il presidente Isaac Herzog gli affiderebbe l’incarico di formare il governo.
Ieri il premier ha annunciato di voler raggiungere una tregua anche a Gaza, liberare gli ostaggi e prevedere una ricostruzione della striscia. E’ l’opposto di ciò che pretendono gli alleati dell’estrema destra nazional-religiosa: per loro la guerra deve continuare fino all’annessione di Gaza.
Le elezioni sono previste nell’autunno 2026. Ma sentendosi ora più forte, Netanyahu potrebbe aprire una crisi di governo e andare al voto anticipato: chiuderebbe anche la guerra a Gaza, sia pure in modo ambiguo; libererebbe gli ultimi ostaggi; e troverebbe alternative di governo migliori di quei partiti estremisti e impresentabili.
Donald Trump. Veni, vidi vici. La cosa più difficile da contenere, prodotta da questa guerra, non è il nucleare iraniano né le ambizioni di potere di Benjamin Netanyahu. Sarà l’ego del presidente americano. Trump non ha solo fermato Israele e Iran. Ha vinto la più breve delle guerre nelle quali sono mai stati impegnati gli Stati Uniti: se quella fra israeliani e iraniani è stata “la guerra dei 12 giorni”, come l’ha chiamata Trump con una chiara citazione di quella dei Sei Giorni, agli americani ne sono bastati meno di tre. L’Afghanistan era durato 20 anni e aveva impegnato tre presidenti. I segni del cesarismo di Trump erano già evidenti. Ora saranno incontenibili. Non mancherà la tentazione di riprovarci in altri contesti.
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