Vance, Musk, Orbán e Salvini: le bugie e i fatti che mettono a rischio le democrazie europee, di di Francesco Battistini e Milena Gabanelli

Alla fiera dell’Est c’è una merce che si vende molto bene: il nazionalismo sovranista. E va anche meglio da quando è arrivato Donald Trump: «La sua vittoria elettorale – dice Radu Magdin, un analista politico rumeno – ha incoraggiato i politici conservatori ad adottare questo modello». Il nazionalismo sovranista è la bussola di chi comanda in Ungheria (Viktor Orbán), in Slovacchia (Robert Fico), in Serbia (Aleksandar Vucic), e in Georgia (Mikheil Kavelashvili). Per circa un decennio, ha dominato la scena della Polonia, della Repubblica Ceca e della Bulgaria. Domenica scorsa ha fatto volare al primo turno (40%) il sovranista George Simion, candidato alla presidenza della Romania, fra qualche giorno potrebbe sfondare di nuovo in Polonia e a settembre in Moldova.

Chi sono e cosa vogliono
Ma da dove arrivano questi politici? Chi sono? E soprattutto: fino a che punto possono spingersi? In Romania lo scorso novembre si presenta alle elezioni Calin Georgescu: da perfetto sconosciuto in poche settimane accumula 3,4 milioni di follower e passa il primo turno con il 22,4% dei voti. Elezioni poi annullate dalla Corte Costituzionale, e Georgescu escluso dalla corsa elettorale per il sospetto di finanziamenti illeciti ricevuti dalla Russia e per l’uso manipolatorio di bot e d’account falsi su TikTok, il social cinese che proprio in Romania ha il più alto indice europeo di penetrazione. La decisione è subito condannata dal vicepresidente Usa J.D. Vance, da Elon Musk, da Vladimir Putin, dal presidente turco Erdogan («è una minaccia alla democrazia»), dai Conservatori europei di cui fino a gennaio è stata presidente Giorgia Meloni, oltre che dal vicepremier Matteo Salvini che ha parlato di «euro-golpe in stile sovietico». Georgescu è sostituito dall’ultranazionalista Simion, che il 4 maggio passa il primo turno con il 41%, ed è il grande favorito al ballottaggio. 

Polonia al bivio
Domenica prossima in Polonia si vota per le presidenziali, e l’astro nascente è il populista Slawomir Mentzen, il politico più seguito su TikTok. Vuole liberalizzare le criptovalute e nel 2019 s’era posto come obiettivo il bando agli ebrei, agli omosessuali, alle tasse e all’Ue. Era arrivato a chiedere l’arresto per le donne che abortiscono e l’impunità per chi infligge punizioni corporali ai bambini. Oggi Mentzen, al secondo posto nei sondaggi e alleato dei tedeschi di AfD all’Europarlamento, ha rivisto un po’ le sue posizioni: quel che basta a evitargli la messa al bando e, forse, a garantirgli la vittoria.
«Slovacchia first» è la linea che guida Robert Fico, il sovranista che fa a gara con l’ungherese Viktor Orbán nel compiacere la Russia. Comunista ai tempi dell’Urss, oggi legato all’estrema destra e contrario alla Nato, è fra i pochissimi membri Ue ben accolti al Cremlino.

Gli aspiranti all’Ue 
L’onda nazionalista bagna anche i Paesi che aspirano a entrare nell’Ue. Tra questi c’è la Moldova, dove il 25 marzo s’è ricorsi all’arresto di Evghenia Gutul, esponente dell’opposizione e leader d’una minoranza etnica contraria all’ingresso del Paese nella Nato e nell’Ue. Avrebbe comprato voti e ricevuto finanziamenti illeciti da un oligarca filorusso ricercato dalla giustizia internazionale per il fallimento di tre banche e per un buco da un miliardo di dollari. Il governo di Chisinau l’ha pertanto esclusa dal posto nel governo che, in base alla Costituzione, le spetterebbe. A favore della Gutul sono insorti sia Putin che Erdogan – proprio loro – accusando i moldavi di «minare la democrazia». 
Molti di questi nuovi leader non hanno un passato. O ce l’hanno oscuro. In Georgia c’è un ex giocatore del Manchester City, Mikheil Kavelashvili, che in dicembre è spuntato quasi dal nulla ed è riuscito a diventare Capo dello Stato. Era l’unico candidato, e l’ha eletto un Parlamento boicottato dalle opposizioni, perché votato secondo una legge elettorale ritenuta ingannevole. A Kavelashvili non era mai riuscito di fare nemmeno il presidente della Federcalcio nazionale, perché la legge lo proibisce a chi, come lui, ha solo la terza media. Ma con le sue posizioni filorusse e una propaganda battente su TikTok, ce l’ha fatta a prendere il posto della leader europeista Salomé Zourabichvili. 
Anche in Serbia è al potere da undici anni, prima come premier e poi Capo dello Stato, il nazionalista Aleksandar Vucic. Da giovane inneggiava al massacro di Srebrenica e censurava i giornalisti per conto di Slobodan Milosevic, l’artefice delle pulizie etniche in Croazia, Bosnia e in Kosovo, processato all’Aja per crimini di guerra. La Serbia aspira a entrare nell’Ue, ma intanto s’oppone alle sanzioni contro Putin, compra armi dalla Cina e fa affari immobiliari con il figlio di Trump, Donald Jr..

Il caso AfD
In Germania il governo e la Corte costituzionale dovranno affrontare una missione impossibile: la messa al bando di AfD. Il partito Alternative fűr Deutschland dichiaratamente omofobo, islamofobo e negazionista dell’Olocausto, ufficialmente classificato dai servizi d’intelligence dopo tre anni d’indagini come formazione d’estrema destra; mentre l’Ufficio federale per la Protezione della Costituzione l’ha definito «un’organizzazione non compatibile con l’ordine democratico», perché «ignora la dignità umana». Sarà complicato mettere al bando un partito scelto dal 20% dei tedeschi, ma la pronuncia dell’Ufficio federale era inevitabile, poiché in Germania (come nel resto d’Europa) i partiti devono rispettare i princìpi fondamentali sanciti dai primi cinque articoli della Costituzione: il rispetto delle minoranze, l’antisemitismo, i diritti inviolabili della persona, lo stato di diritto. Contro il rapporto degli 007 si sono schierati Matteo Salvini («gravissimo»), Orbán («l’AfD può contare su di noi»), Elon Musk, il segretario di Stato americano Mark Rubio e il vicepresidente Usa, J. D. Vance: «Questa è tirannia». 

Silenzio per i nemici
I nazionalisti gridano al complotto, quand’è messa in discussione la libertà degli amici. Ma tacciono, se tocca ai loro nemici. Il 29 aprile, Erdogan è venuto in Italia e s’è incontrato con Giorgia Meloni. Fra sorrisi e accordi di scambi commerciali per 35 miliardi di euro, oltre all’impegno d’organizzare insieme gli Europei di calcio nel 2032, la premier italiana non ha trovato nemmeno un minuto per ricordare al presidente turco il caso del suo principale avversario politico, Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul e candidato alle presidenziali del 2028, arrestato lo scorso 23 marzo con le accuse di corruzione, estorsione, riciclaggio, turbativa d’asta e terrorismo. Un capo d’imputazione riguarda perfino l’irregolarità nella registrazione della sua laurea. Sul sindaco pendono sette processi, considerati pretestuosi da Amnesty International, dal Comitato di Helsinki, da Human Rights Watch e da altre otto ong internazionali. Ma per lui Meloni, Salvini, Orban, Musk, Vance e Rubio non hanno mai speso una parola. E il «golpe turco» che ha portato in galera Imamoglu non ha smosso l’indignazione nemmeno di Simion o di Georgescu.

I vantaggi della Ue
Una cosa accomuna tutti i nazionalisti: l’odio per l’Ue. Eppure vengono votati in Paesi che hanno ricevuto enormi benefici dall’ingresso in Europa. La Polonia, entrata nel 2004, è l’unico Stato europeo che da allora non è mai andato in recessione, è il Paese che più utilizza i fondi strutturali comunitari assegnati ogni 7 anni e oggi è diventata la sesta economia del Continente. La Romania ha avuto dal 2007, data dell’adesione all’Ue, una crescita media del 2-3% annuo, con punte del 4,8% prima della guerra in Ucraina. L’Ungheria è entrata nell’Ue nel 2004: da allora i contributi europei hanno favorito in maniera determinante una crescita media del 4%. Ma gli ultranazionalisti non si limitano alle critiche all’Europa: ne chiedono l’abolizione. 

Gli strumenti per arginare
I governi nazionalisti hanno scatenato due guerre mondiali, e da allora le democrazie occidentali hanno fissato paletti vincolanti. Le istituzioni europee, con il Trattato di Lisbona, la Carta dei diritti di Nizza, i criteri di Copenaghen, definiscono le norme che tutti i Paesi membri, e gli aspiranti tali, devono rispettare: dallo stato di diritto, alle competizioni elettorali trasparenti e leali. Chi le infrange ne paga le conseguenze. Certo, diventa molto complesso punire un Paese dove la maggioranza, o una larga fetta della popolazione sceglie un partito eversivo. Al tempo stesso le democrazie hanno non solo il diritto, ma il dovere di difendersi da chi ne mette in pericolo le fondamenta. Lo strumento è quello delle sanzioni, come nel caso dell’Ungheria a cui sono stati sospesi i fondi europei, oppure, se le sanzioni non bastano, togliendo il diritto di voto, e quindi di veto. Decisione possibile, ma solo con il superamento del vincolo dell’unanimità.

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