USA vs Venezuela: cosa vuole Trump?, di Emiliano Guanella

Il comunicato del Pentagono è scarno ma estremamente efficace, una di quelle notizie che fanno venire i brividi al regime di Caracas. La più grande nave da guerra del Pianeta è arrivata nelle acque del Mar dei Caraibi: la posizione esatta ovviamente non è stata comunicata; ora tutti si chiedono come sarà impiegata in uno scenario che non è da conflitto bellico, ma poco ci manca.

Cosa sta succedendo?
La Gerald Ford è una portaerei a propulsione nucleare lunga 337 metri e larga 78 metri, può trasportare fino a 90 caccia e droni speciali, oltre a 4.500 marines. È il fiore all’occhiello della marina militare statunitense ed era impiegata fino a un mese fa nel Mediterraneo, attraccata in una base in Croazia. Il colosso, costato 13 miliardi di dollari, si affianca a un’altra decina di imbarcazioni già presenti al largo delle coste venezuelane, formando così il più grande contingente militare americano dispiegato attualmente.
La missione ufficialmente è contro i narcos e le loro operazioni con origine in Venezuela. Finora sono state distrutte una ventina di imbarcazioni con a bordo più di 70 individui. La Casa Bianca sostiene che si trattassero di trafficanti con a bordo cocaina diretta verso gli USA, ma non sono state fornite prove se non il video dei missili che li raggiungono e li fanno esplodere. I dubbi sulle reali motivazioni alla base dello schieramento di forze sono più che legittimi, non foss’altro per lo spropositato dispiegamento di forze rispetto alla natura dichiarata di tutta l’operazione.
A Caracas Nicolas Maduro parla senza mezzi termini di prove tecniche di invasione e mobilita esercito e milizia bolivariana; i pasdaran del regime, come il potente ministro degli Interni Diosdado Cabello, evocano un possibile stato marziale con l’interruzione delle telecomunicazioni a livello nazionale. “Siamo pronti a qualsiasi scenario, difenderemo la rivoluzione contro questo attacco imperialista”.
In un’interessante intervista alla BBC il diplomatico statunitense James Story, che fino al 2018 lavorava all’ambasciata americana a Caracas, spiega che lo scenario dell’invasione non è possibile perché non ci sono gli uomini necessari: “Nei Caraibi disponiamo oggi di 8.000-10.000 unità e per invadere una nazione grande come il Venezuela ci vorrebbero almeno 30.000 uomini. Ma è chiaro che le forze in campo non sono quelle di un’operazione antidroga, pur estesa che sia”. Un mese fa Trump ha parlato di simulazioni della CIA su possibili operazioni in territorio venezuelano, una dichiarazione insolita dato che di prassi un piano del genere non viene di certo annunciato.

Le questioni sul tavolo 
Se si guardano i numeri del traffico di droga verso gli USA, poi, è chiaro che il problema non è affatto il Venezuela, da dove proviene meno del 5% della cocaina e praticamente nessun carico di droghe sintetiche come il fentanyl. L’ipotesi della volontà di spingere per un cambio di regime a Caracas è sul tavolo. Per Trump, Maduro è un fiancheggiatore dei cartelli della droga e un elemento destabilizzatore degli interessi statunitensi in America Latina. Per non parlare della pressione migratoria, con un quarto della popolazione venezuelana che ha lasciato il Paese negli ultimi dieci anni. Anche su questo James Story è stato molto chiaro: “C’è la questione della droga che l’amministrazione Trump prende molto sul serio. Ma conta anche il problema dei migranti, nove milioni di persone se ne sono andate: un esodo può continuare se non si creano le condizioni per far vivere meglio la popolazione venezuelana. Per gli USA è importante poi la questione dei diritti democratici; Maduro ha imbrogliato e non ha rispettato i risultati delle elezioni dello scorso anno, è un usurpatore che non rispetta la volontà della sua gente e i diritti umani”.
L’operazione antidroga nel Mar dei Caraibi potrebbe inoltre essere un grande banco di prova per esportare questo modello anche in altre zone. Le navi statunitensi hanno già attaccato un paio di imbarcazioni nell’Oceano Pacifico a circa 400 miglia marittime dalla costa messicana di Acapulco. La stragrande maggioranza della cocaina prodotta in Colombia diretta verso gli USA parte dall’Ecuador e passa via Pacifico. A loro volta, le droghe sintetiche sono prodotte per lo più in Messico e per bloccare questo traffico Washington è pronta a esportare il modus operandi che si sta testando al largo del Venezuela.

La quiete prima della tempesta?
La guerra a Caracas, per ora, pare correre sul filo della pressione psicologica: mostrare i muscoli per intimorire il regime e cercare sottobanco di spezzare la fedeltà della casta militare a Maduro. Come sempre accade in queste occasioni, si dice e si scrive di tutto ed è molto difficile cercare le briciole di verità nella girandola di versioni e ipotesi. Diversi media teorizzano sui possibili piani di fuga del presidente; il governo del Qatar si è detto pronto a ospitare un tavolo dei negoziati; l’opposizione venezuelana, a partire dal Premio Nobel della Pace Maria Corina Machado, si dice pronta ad assumere un ruolo nel processo di transizione.
Gli alleati di Maduro sono cauti. La Cina dice di osservare con attenzione gli sviluppi; da Mosca ribadiscono la loro alleanza strategica con Caracas; Teheran non si sbilancia più di tanto. In Sudamerica cresce, invece, la preoccupazione soprattutto tra i governi non apertamente ostili al governo venezuelano. Il colombiano Gustavo Petro è stato molto duro contro le operazioni militari nei Caraibi; dal Brasile si dicono pronti a lavorare per mediare; un po’ ovunque si teme una nuova ondata migratoria in caso di un conflitto. Il chavismo governa da 26 anni, la fine di un regime non è mai semplice, ogni movimento interno o esterno va analizzato con cautela.
Così come hanno fatto con le barche in mezzo al mare, gli Stati Uniti potrebbero decidere di bombardare presunte basi di narcos in territorio venezuelano. La difesa anti-area di Caracas non è assolutamente in grado di rispondere ai missili Tomahawk con gittata di 1.600 chilometri. Tuttavia, se Maduro decidesse di resistere a oltranza, non resterebbe che la strada dell’invasione terrestre.
Uno scenario, quest’ultimo, che il Congresso americano non approverebbe e che potrebbe rivelarsi molto pericoloso per un presidente che ha promesso di far cessare le guerre nel mondo e far tornare a casa i propri soldati. Tutto, però, può succedere: bisogna fare i conti con l’imprevedibilità di Trump e la tenacia di Maduro. Una partita di nervi e complotti che potrebbe proseguire per molto tempo ancora.       

ispionline.it/it/pubblicazione/usa-vs-venezuela-cosa-vuole-trump-223404

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