Una storia lunga tremila anni, di Alessio Mariani

Il 7 ottobre 2023, i miliziani di Hamas varcano il confine della striscia di Gaza per dare inizio all’operazione «Alluvione al-Aqsa», 1200 israeliani vengono uccisi, 240 vengono trascinati via come ostaggi. Lo stesso giorno, Israele reagisce con l’operazione «Spade di Ferro» che uccide decine di migliaia di palestinesi, molti dei quali donne e bambini. Un presente di terrorismo, guerra e genocidio. Con una storia lunga da conoscere. Per capire come tutto questo possa accadere. E ragione per la quale, Ilan Pappé, storico israeliano dell’Università di Exter, ha deciso di pubblicare la sua Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina (Fazi Editore, 2024). Nella consapevolezza di come la questione israelo-palestinese manifesti, non una sequenza irrazionale di brutalità reciproche ma un fenomeno storico razionalmente intellegibile. Nonché, di come l’analisi storica e geopolitica intellettualmente onesta rappresenti la premessa necessaria all’impegno umano per la pace.
Se il 13 ottobre 2025, a Sharm el Sheikh, il presidente americano Donald Trump è riuscito a promuovere la sua pace tregua, anche questi accordi potranno spiegare i loro effetti, soltanto nel contesto della lunga durata.
Pertanto, lo sviluppo della questione israelo-palestinese comincia nel secolo dei nazionalismi. Ovvero, verso la fine dell’Ottocento, quando i nazionalismi entrarono nella fase più calda e infiammarono la narrazione delle comunità ebraiche quali gruppi separati e inaffidabili all’interno degli Stati. In particolare, l’Impero Russo e l’Impero Austroungarico in crisi subirono i movimenti indipendentisti delle proprie comunità etnoculturali. Tracciando lo spazio entro il quale, lo “stesso” ideale nazionalista trovò l’espressione antisemita più violenta dei pogrom e inspirò i primi intellettuali ebrei sionisti a cercare un territorio per la propria nazione, come difesa e strumento di modernizzazione. Significò rileggere gli ebrei da gruppo religioso eterogeneo, a nazionale ed etnico. E l’Antico Testamento da testo sacro e morale, a documento politico. In questo modo, il primo sionismo affermò che Israele avrebbe dovuto riconquistare i luoghi biblici, dove gli arabi erano usurpatori o stranieri. Tuttavia, il vento nazionalista superava il continente europeo. Oltre mare, il regime multinazionale in crisi fu l’Impero Ottomano che governava la Palestina storica nei distretti di Gerusalemme, Acri e Nablus. Abitati da palestinesi arabi, per la maggior parte di religione mussulmana sunnita o in misura minore cristiana ed ebraica. Ragione per la quale, il nazionalismo dei palestinesi fu quello arabo e panarabo, impegnato nella riscoperta della propria cultura e identità. Divergendo dalle aspirazioni di movimenti, quali Giovani Ottomani e Giovani Turchi, intenzionati a sottolineare il carattere turcico dell’Impero. Ma presto, i contesti mediorientale ed europeo avrebbero stretto legami ancora più saldi.
Infatti, nel 1882, dopo una violenta successione di pogrom, Israel Belkind raccolse ingenti finanziamenti dalla diaspora ebraica e condusse il primo sparuto gruppo di ex studenti universitari sionisti, dall’Europa Orientale in Palestina. La tradizione ottomana aveva ignorato per secoli il possesso personale della terra. E l’introduzione recente di un diritto di proprietà più simile a quello occidentale non era giunta a prevedere la possibilità di sfrattare i contadini che dovevano continuare a vivere nei loro villaggi secolari e a lavorare per il nuovo proprietario. Pertanto, visto che la prima ideologia sionista promuoveva la figura dell’ebreo contadino, i giovani universitari acquistarono terreni vuoti o incolti, pur dovendo ricorrere all’aiuto dei palestinesi per imparare a coltivare. In Palestina, la popolazione di origine europea sarebbe rimasta una minoranza ancora per molto tempo.
Comunque, la sponda decisiva era l’altra. Nel 1897, a Basilea, l’ebreo austriaco Theodor Herzl organizzò il primo Congresso sionista. Il programma prevedette la creazione di «una casa in Palestina per il popolo ebraico». Soltanto i diari di Herzl accennarono al programma per i palestinesi, «popolazione squattrinata» che andrebbe «fatta sparire». A ogni modo, il governo ottomano rifiutò di cedere il suo territorio per fondare un Stato nuovo. Ed Herzl tentò, senza successo, di reindirizzare il Congresso verso la colonia britannica dell’Uganda. In questo modo, i primi tentativi direttamente politici fallirono. Altri leader come David ben Gurion o Menachem Ussishkin scelsero di privilegiare l’impegno diretto sul terreno mediorientale. Mentre la nuova guida del Congresso, Chaim Weizmann, scelse l’attività lobbistica in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti. Dove il vecchio sionismo cristiano protestante che legava la seconda venuta di Cristo al ritorno degli ebrei, sarebbe diventato un’influente forza politica.
Eppure soltanto la Prima Guerra mondiale scompaginò davvero le carte, opponendo inglesi e turchi. La Gran Bretagna agì con doppiezza: nel 1916, coinvolse la dinastia Hashemita che governava La Mecca e Medina, promettendo l’unità degli arabi e le terre che sarebbero state conquistate; nel 1917, il ministro degli esteri Arthur Balfour inviò al sionista lord Rothshild la lettera privata che sarebbe divenuta l’omonima dichiarazione, destinata ad essere ripresa dalla Società delle Nazioni, con la sua promessa di «una patria nazionale per il popolo ebraico». Alla fine la spartizione delle terre arabe con i mandati francesi e britannici, protesse il canale di Suez e accontentò parzialmente la lobby sionista.
Nel 1919 il Congresso arabo-palestinese avrebbe raccolto le organizzazioni mussulmane e cristiane contrarie alla Dichiarazione di Balfour. Nondimeno, gli anni del mandato furono decisamente favorevoli al movimento sionista.
Infatti, un commissario britannico e un consiglio locale avrebbero dovuto guidare i mandati fino all’indipendenza. Come avvenne in Iraq (1932), Libano (1943), Siria (1946). Ma non in Palestina, dove i coloni ebrei avevano raggiunto l’11% della popolazione e la crescente tensione con i palestinesi impedì di formare il consiglio. I britannici dovettero mantenere tutto il potere, rifiutando di applicare il generale principio mandatario che riconosceva il diritto della maggioranza della popolazione a determinare il proprio futuro. Anzi, i commissari lasciarono che il movimento sionista mantenesse la milizia paramilitare dell’Haganah e portasse avanti l’edificazione di un sistema di servizi pubblici essenziali indipendente. Mentre obbligavano i palestinesi ad accontentarsi delle istituzioni coloniali gestite dai britannici, sanità lacunosa, nessuna classe di governo autoctona, nessuna università e soprattutto nessuna milizia.
Infine gli inglesi soppressero la tradizione agraria locale, subordinando la permanenza dei contadini, alla volontà del proprietario terriero. Quando il movimento sionista era in grado di mobilitare ingenti risorse dall’estero per acquistare ampi territori, ancora detenuti dal vecchio notabilato ottomano che spesso viveva in altri paesi. Ciò provocò l’espulsione dalla terra di migliaia di contadini palestinesi. Grandi baraccopoli sorsero nelle periferie urbane. I palestinesi subirono la prima forma di pulizia etnica e immiserimento programmato. Soprattutto i gruppi sionisti di ispirazione socialista raccomandavano che gli ebrei diventassero agricoltori.
Verso la fine del primo decennio di mandato, gli scontri violenti emersero tra i caratteri ricorrenti del conflitto. La Rivoluzione di al-Buraq divampò a partire da Gerusalemme per la contesa sull’accesso al Monte del Tempio e alla Spianata della Moschee, al-Haram al-sharīf, con centinaia di morti. A Hebron decine di ebrei dell’antica comunità presionista finirono massacrati. L’imam Izz al-Din al-Qassam introdusse le tecniche di guerriglia contro i britannici e cadde combattendo. Nel 1936, il Supremo comitato arabo indisse un sciopero di sei mesi contro l’immigrazione, l’acquisto dei terreni e per l’istituzione di un governo nazionale. Lo sciopero che sarebbe tracimato nella grande rivolta araba (1936-1939). Gli inglesi impiegarono tre anni per reprimere l’insurrezione. Con l’effetto a lungo termine di decimare la classe dirigente palestinese più preparata. Destinata a mancare il momento decisivo.
Nel corso dei primi sessant’anni del movimento, i sionisti avevano penato considerevolmente a convincere gli ebrei europei a lasciare i propri paesi, per trasferirsi in un continente diverso e pieno di incognite. La maggior parte degli ebrei aveva tentato di porre fine a stragi antisemite e discriminazione, impegnandosi nei movimenti socialisti o liberali. Soltanto la Seconda Guerra Mondiale con l’orrore dell’Olocausto e il dopoguerra nel limbo dei campi profughi, dove ottenere un visto era più difficile che arruolarsi nell’Haganah, trasformarono il sionismo e l’emigrazione verso la Palestina in fenomeni di massa. Proprio quando l’Inghilterra sfinita cominciava ad accettare  il tramonto dell’Impero. Allora i sionisti iniziarono a colpire anche i britannici, a partire dall’attentato dell’Irgun al King David Hotel di Gerusalemme. E a pianificare efficacemente l’occupazione di radio, servizi postali, telecomunicazioni, banche, ferrovie, trasporti pubblici e terra, via via che i britannici se ne andavano.
Nel 1947, la Gran Bretagna rimise alle Nazioni Unite la decisione sulla terra e sul conflitto. La maggior parte dei paesi destinati a nascere con la fine del colonialismo mancavano dall’assemblea. Stati Uniti e Unione Sovietica evitarono di partecipare all’Unscop (Comitato Speciale dell’Onu sulla Palestina). Il Supremo comitato arabo continuò a chiedere che la Palestina diventasse indipendente secondo la Carta delle Nazioni Unite. Allo stesso modo di tutti gli altri mandati mediorientali e colonie. Dove l’eventuale presenza di popolazione europea non metteva in discussione l’integrità territoriale.
Unscop espresse due proposte, quella minoritaria dello stato federale binazionale e quella maggioritaria della partizione in due stati, con Gerusalemme sotto amministrazione internazionale. L’Assemblea Generale con la sua cinquantina di membri votò a stretto margine in favore della partizione. Sotto importanti pressioni degli Stati Uniti, verso paesi timorosi di perdere gli aiuti finanziari come Haiti o la Liberia. Lo Stato ebraico raccolse il 56% del territorio, popolato pressoché equamente da ebrei e arabi. Lo Stato palestinese ebbe il 43% del territorio, popolato quasi esclusivamente da arabi. La soluzione che avrebbe dovuto assicurare la pace, iniziò la guerra.
I palestinesi tentarono di organizzare in fretta le proprie milizie, rafforzate da poche centinaia di volontari di altri paesi. L’Haganah aveva già raggiunto la forma di un esercito regolareCosì, Ben Gurion e i suoi generali cominciarono a costruire una netta maggioranza demografica ebraica sul proprio territorio. Secondo quanto previsto dal Piano Dalet, i sionisti accerchiarono su tre lati le città palestinesi e attaccarono. Una volta fuggite le persone, gli edifici venivano rasi al suolo, a scongiurare ogni possibilità di ritorno. Con questa tecnica, la popolazione palestinese venne cacciata da Haifa, Bisan, Giaffa, Acri, Tiberiade, Safed e molti centri minori. La fine ufficiale del mandato britannico trovò 250.000 palestinesi già sfollati. Un vantaggio nell’ordine del tempo. Perché l’occupazione etnica del territorio era la chiave del conflitto. Il 14 maggio 1948, Israele nacque ufficialmente come stato.
Infatti la giovane Lega Araba aveva raccolto Egitto, Siria, Libano e altri paesi, impegnandosi a fornire appoggio diplomatico ai palestinesi, nell’attesa che i britannici partissero per intervenire militarmente. D’altra parte i loro eserciti erano composti largamente da milizie volontarie, con una componente professionale ancora in fase di costituzione e addestramento. Soltanto la Giordania poteva contare sulla Legione Araba che aveva combattuto a fianco degli inglesi durante la guerra. In ogni caso, re Abdullah e Israele avevano già stipulato un accordo segreto. Quando cominciò la guerra, la Legione Araba occupò senza colpo ferire soltanto la Cisgiordania per annetterla al Regno, scontrandosi con l’esercito israeliano limitatamente all’area di Gerusalemme, dove non era stato possibile trovare un accordo. Mentre, contrariamente a quanto pianificato, l’esercito egiziano combatté solo, nell’attesa vana dei rinforzi promessi.
A partire da agosto con l’arenarsi dell’intervento arabo, la pulizia etnica poté accelerare. I profughi palestinesi furono spinti in Siria, Libano e Giordania. Soltanto l’Egitto chiuse la frontiera. Israele dovette risolvere il problema, concentrando centinaia di migliaia di palestinesi sfollati nella Striscia di Gazza che da città cosmopolita della via Maris, assunse la forma del campo profughi. Oggi, a Gaza, vive la terza generazione dei profughi di quel tempo.
Le Nazioni Unite intervennero a dicembre con la Risoluzione 194, affermando l’internazionalizzazione di Gerusalemme, i confini disposti l’anno precedente e il diritto dei profughi palestinesi al ritorno nelle proprie abitazioni. In quel momento circa metà della popolazione palestinese che aveva vissuto nella Palestina storica era stata cacciata di casa. Nondimeno, anche l’ultimo punto della Risoluzione 194 rimase lettera morta. E nel 1950 nacque l’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino Oriente). L’Unrwa costruì i campi che ancora segnano la periferia di parecchie città e capitali arabe. Concretamente, la prima pulizia etnica non trovò opposizione internazionale. E se una parte della storiografia ricostruisce l’esodo in forme più simili a quelle della fuga volontaria dai combattimenti. Gli israeliani negarono sempre ai profughi la possibilità di tornare e recuperare i propri averi. I palestinesi ricordano gli eventi come la Nakba, la catastrofe.
La guerra del 1948 permise l’annessione israeliana di quasi l’80% del vecchio territorio mandatario. Ma il conflitto proseguì nel contesto internazionale teso, segnato dalla Guerra Fredda, dall’avvento del socialismo arabo, dalla Crisi di Suez. E attraverso i mutamenti interni alle due comunità. Da una parte: l’inizio della lotta armata e del terrorismo palestinese, attorno una pluralità di gruppi che tormentarono la frontiera tra Israele e Giordania, quali Fatah (Movimento di liberazione nazionale palestinese) o l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Dall’altra: l’influenza obliqua a politici laburisti, alti gradi dell’esercito, sionisti religiosi, dell’ideologia del Grande Israele con un confine sicuro sul fiume Giordano.
Ben Gurion aveva espulso un milione di palestinesi nel 1948 e rifiutava ogni espansione che portasse popolazione araba entro i confini. Il suo potere durò fino al 1963. Poi Michael Shaham fu incaricato di elaborare l’omonimo piano per governare i palestinesi di Gaza e Cisgiordania, a partire da un quadro giuridico che permettesse la detenzione senza processo. Il 5 giugno del 1967, Israele scatenò la guerra dei Sei Giorni. Egitto, Siria e Giordania furono sorprese con l’aviazione a terra e sconfitte duramente. Israele occupò provvisoriamente la penisola del Sinai e Gaza, in maniera stabile le alture del Golan e il cuore biblico della Cisgiordania. Stavolta, il governo più ampio della storia di Israele, comprendente anche i partiti religiosi ultraortodossi, prese alcune decisioni fondamentali: la limitazione delle espulsioni ad un centinaio di villaggi del Golan e ai campi profughi di Gerico e Gerusalemme, dove vivevano 300.000 palestinesi; il rifiuto di concedere la cittadinanza ai palestinesi che avrebbero vissuto nei territori occupati; l’applicazione del Piano Shaham.
In seguito, i laburisti israeliani governarono per otto anni. La progressiva colonizzazione della Cisgiordania e l’ebraicizzazione della Galilea, la cui demografia era ancora palestinese per metà, risalgono a questo periodo.
Il contesto internazionale avrebbe registrato altre tensioni e confronti militari. Nel 1973,  Egitto e Siria attaccarono Israele nella la guerra dello Yom Kippur. Nel 1978, Israele invase il sud del Libano che ospitava la resistenza palestinese. Quindi il lungo coinvolgimento israeliano nella guerra civile di quel paese. Ciononostante la sintesi di Pappé privilegia il fronte interno. Il conflitto israelo-palestinese è causa e centro del problema. Per quanto, stati lontani e vicini siano riusciti a strumentalizzarlo secondo i propri interessi.
In questo modo, è particolarmente significativo osservare il processo di pace degli Accordi di Oslo I e II. Il 1992 accomunò il primo ministro laburista Yitzhak Rabin, al capo dell’Olp Yasser Arafat, indebolito dalla fine del supporto sovietico. La mediazione fu affidata alla Fafo, una fondazione norvegese legata ai sindacati. La Fafo operò secondo la tecnica di gestione dei conflitti che teorizza l’imposizione alla parte più debole del massimo che la parte più forte sia disposta a concedere. La proposta prevedette la cessione del 40% della Cisgiordania e Gaza all’Anp (Autorità Nazionale Palestinese) che avrebbe collaborato con esercito e servizi segreti israeliani contro i movimenti che avessero continuato la lotta armata. I secondi accordi di Oslo dettagliarono meglio le disposizioni. La Cisgiordania sarebbe stata divisa nell’area A (18%) controllata dall’Anp, l’area B cogestita formalmente e fattualmente governata da Israele, l’area C sostanzialmente israeliana, la Striscia di Gaza formalmente non specificata e fattualmente assimilata all’area B, con la questione di Gerusalemme rimandata al futuro, i profughi senza speranza di ritorno e nessuno stato palestinese. Negli anni del suo esilio tunisino, la dirigenza dell’Olp era andata perdendo influenza sui territori occupati e scelse di accettare. Il che provocò la spaccatura con la resistenza di ispirazione religiosa che valutò insufficiente il risultato. Hamas (Movimento della resistenza islamica) fonda il proprio successo di seguito, proprio su questa decisione, poiché la situazione che i palestinesi vissero dopo gli accordi sarebbe risultata ampiamente impopolare. Intanto, nel settembre 1995, Yasser Arafat assunse la guida dell’Anp e tornò in patria in una posizione di potere.
Due anni dopo, un colono ultraortodosso assassinò Yitzhak Rabin. Un evento che spostò a destra il baricentro politico israeliano. Infatti, Benjamin Netanyahu vinse le elezioni e divenne primo ministro, operando per vanificare l’accordo, aggiungendo centinaia di posti di blocco tra le tre zone, a quelli che già fomentavano il malcontento dei palestinesi. Mentre la concessione dei permessi di transito e le attese in auto furono utilizzati per ottenere varie forme di collaborazionismo. Il filo spinato circondò Gaza. L’area C fu estesa. A Gerusalemme ed Hebron ripresero gli espropri.
Con il nuovo Millennio, Camp David ospitò il vertice della svolta. Pappé diverge dagli studiosi che avrebbero sottolineato la generosità dell’offerta israeliana. Bill Clinton e il primo ministro laburista Ehud Barak pretesero un accordo definitivo da non rivedere, sostanzialmente la stabilizzazione dello status quo, già terribilmente impopolare e che la dirigenza difficilmente avrebbe potuto imporre al popolo. Arafat rifiutò. Il capo dell’opposizione, Ariel Sharon, mise in scena la sua celebre provocatoria passeggiata sulla Spianata della Moschee. Il seguito fu quello della seconda intifada, dell’ondata di attentati terroristici della resistenza islamica, a partire da quello di Hamas al Park Hotel di Netanya che provocò trenta morti e oltre cento feriti, della sanguinosa operazione «Scudo Difensivo» con la quale gli israeliani rioccuparono la Cisgiordania e alcune zone della Striscia di Gaza. Nel 2004 morì Arafat, assediato nel suo quartier generale. Mahmud Abbas successe alla guida dell’Anp e ottenne un allentamento dell’assedio, accentuando la collaborazione con gli israeliani nel reprimere la resistenza armata.
Negli anni successivi, Israele proseguì la colonizzazione della Cisgiordania e la costruzione di un sistema di apartheid. La Legge sulla nazionalità e l’Ingresso in Israele previde che i palestinesi non ottenessero più automaticamente la cittadinanza israeliana o il permesso di residenza tramite matrimonio. La Legge fondamentale dello Stato-nazione ebraico declassò la lingua araba da lingua di Stato e affermò Gerusalemme capitale. La legge sulla Nakba proibì che le istituzioni ufficiali commemorassero la catastrofe. Città e quartieri ebraici ottennero il diritto di vietare l’accesso ai palestinesi. E in maniera soprattutto informale, i palestinesi di cittadinanza israeliana persero il diritto ad acquistare terreni in proprietà. La Corte Suprema ha approvato tale legislazione.
Tuttavia, come accennato, alcuni partiti avevano rifiutato gli accordi di Oslo. Nel 1928, in Egitto, Hassan al-Banna aveva fondato il movimento dei Fratelli Mussulmani: soltanto un risveglio islamico poteva sostenere la lotta contro il colonialismo e costruire la base solidaristica per risolvere i problemi di povertà, assistenza medica, istruzione. Nel 1987, dopo la prima intifada, i Fratelli Mussulmani di Palestina decisero di fondare anche una sezione armata, Hamas.
A partire dalla prima occupazione di Gaza e della Cisgiordania, Israele aveva guardato benevolmente ai Fratelli Mussulmani palestinesi, con la speranza che questi finissero per dividere le forze nemiche e indebolire il problema allora maggiore della resistenza laica. Così, il seguito di Hamas è potuto crescere lentamente, a mano a mano che l’Anp moltiplicava le delusioni. Quando Sharon dispose il ritiro israeliano da Gaza, paradossalmente, le prime elezioni libere dei palestinesi furono organizzate per legittimare Mahmud Abbas e impedire che Hamas prendesse il controllo della città.
Nel 2005, Israele completò il ritiro. Nel 2006 tra Gaza e Cisgiordania, Hamas ottenne il 44% dei voti e il diritto di formare il nuovo governo secondo la legge elettorale. Israele e Stati Uniti sostennero gli altri partiti palestinesi che rifiutarono di abbandonare il potere. Ciò significò una guerra civile. E nella Striscia di Gaza, Hamas sconfisse gli avversari. Da allora, la città stenta sotto assedio e periodiche campagne di bombardamento. La metà più giovane della popolazione ha meno di ventuno anni e non ha conosciuto altro modo di vivere che quello della violenza sotto le bombe. Senza prospettiva di miglioramento.
Nel 2009 è cominciata l’epoca caratterizzata dai governi di Netanyahu. La colonizzazione è continuata in maniera lenta, volta a quartieri limitati come Sheikh Jarra e Silwan di Gerusalemme Est. Nel 2022, Netanyahu poté formare il governo soltanto con l’accordo dei partiti dei coloni, dalle forti inclinazioni teocratiche e razziste. Itamar Ben-Gvir, leader di Potere Ebraico, è diventato ministro della sicurezza nazionale. Bezalel Smotrich, leader di Sionismo Religioso, è diventato ministro delle finanze. Il tentativo del governo di politicizzare maggiormente il controllo della Corte Suprema ha scatenato le proteste della parte laica della società. Portando in superficie la forte spaccatura interna tra lo Stato di Giudea dalle tendenze teocratiche e lo Stato di Israele laico. Con il primo che corrode il secondo. La completa esclusione del tema palestinese da tali manifestazioni ha sottolineato la marginalità politica degli israeliani che perseguono una soluzione concordata del conflitto. Tanto che le due correnti ebraiche trovano la principale ragione di unità, proprio nell’avversione agli arabi e soprattutto ai palestinesi. La spaccatura rappresenta una causa importante della crisi del progetto sionista. Queste le condizioni prima che il 7 ottobre 2023, i miliziani di Hamas superassero il confine, per compiere l’attentato terroristico più crudele della loro storia.
Ilan Pappé ha ricostruito il contesto, avanzando diverse tesi storiografiche. L’esistenza molto antica di un popolo palestinese. L’interessato e decisivo appoggio britannico al sionismo. La classificazione di Israele tra le imprese coloniali europee a carattere insediativo – esempi: Stati Uniti, Australia, Tasmania – volte alla sostituzione etnica dei nativi anziché limitata al loro governo, – esempi: India, colonie portoghesi in Africa–. Ragione per la quale fu prevista e attuata la pulizia etnica, dalle leggi fondiarie inglesi fino ad oggi. La sostanziale equivalenza di destra e sinistra israeliane nell’indisponibilità ad accettare un vero stato palestinese. Il ruolo della lobby sionista occidentale, di sostegno pratico e nella costruzione della narrazione mediatica favorevole. La classificazione della lotta palestinese tra i movimenti di liberazione coloniale. Il fallimento degli accordi di pace perché iniqui. La constatazione che Israele ha commesso un genocidio a Gaza.
Quanto al futuro prossimo. Lo storico israeliano riconosce la soluzione a due Stati, quale retorica comoda del politicamente corretto, impossibile nella realtà. Settecentomila israeliani vivono in Cisgiordania e vi rimarranno. I palestinesi non accetteranno l’autoamministrazione di pochi ritagli di terra in posizione subordinata, nel silenzio sui profughi che desiderano tornare a casa.
Oltre, realismo e idealismo paiono confondersi. Nella fase storica che starebbe conducendo lentamente al fallimento del progetto sionista. Verso un solo stato, nel quale israeliani e palestinesi godranno degli stessi diritti. E una nuova generazione palestinese già presente e consapevole del proprio bisogno di unità, che potrebbe assumere la guida della lotta di liberazione coloniale. E che se dovesse riuscire a presentare una visione credibile della vita sicura di milioni di ebrei israeliani nella Palestina liberata, potrebbe cambiare la situazione sul terreno in maniera difficile da immaginare.

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