Se l’autonomia «tradisce» la spinta alla coesione finanziata da Bruxelles, di Ennio Triggiani

Su queste pagine, giorni fa, è stata opportunamente sottolineata l’importanza del ruolo svolto dall’Unione europea attraverso la politica di coesione e l’uso dei Fondi strutturali per attenuare il diverso livello di sviluppo fra le regioni «comunitarie». Ma, nel seguito dell’analisi, si è sostenuto, in maniera quantomeno singolare, che grazie alla riforma in corso in Italia della Autonomia differenziata il nostro Sud possa, per mezzo di tali Fondi, affrancarsi finalmente da vincoli centralisti e giocarsi la possibilità di superare il Nord.

Avrei immaginato che un discorso del genere fosse effettuato da un sostenitore del SudExit (dall’Italia) e cioè di una scissione del nostro Meridione per la creazione di uno Stato autonomo, ipotesi peraltro ben poco realistica. Ma così non è. E allora?

Certo, i fondi strutturali europei sono stati voluti per attenuare il profondo divario esistente tra le regioni  più ricche e quelle meno sviluppate. Si tratta di una delle più importanti innovazioni introdotte dal sistema «comunitario» basata sulla concezione di una politica di sviluppo che parte dai territori e dai loro fabbisogni in applicazione del motto «nessuno resti indietro».

Le risorse previste da questi Fondi vengono distribuite secondo una programmazione settennale in quanto il sistema deve indurre gli Stati membri a mantenere comunque il loro prevalente impegno di investimento e di crescita. Infatti, la politica di coesione si basa, in particolare per la gestione concorrente, sul cofinanziamento nazionale o regionale nel senso che le risorse dell’Unione devono essere integrate, tramite appositi Accordi di partenariato con la Commissione europea, da risorse nazionali.

Queste non possono venire impiegate per finanziare interventi ordinari dello Stato essendo solo aggiuntive rispetto alla spesa pubblica dello stesso, secondo il principio dell’addizionalità sancito dai regolamenti europei; in altri termini, non si sostituiscono alle azioni e ai finanziamenti nazionali che debbono restare la principale fonte di perequazione del divario di sviluppo. E, sia ben chiaro, la responsabilità di agire in funzione di questo obiettivo spetta, di fronte alle istituzioni dell’Unione, al singolo Stato e non alla eventuale organizzazione dello stesso su base decentrata.

Tornando al progetto della Autonomia differenziata, pertanto, anzitutto è banale ricordare che la sua realizzazione non è possibile prima che siano garantiti i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) che ne costituiscono la condizione preliminare. E la Corte costituzionale non a caso li ha qualificati come il «nucleo invalicabile di garanzie minime (sentenza 220/2021)» e «elemento imprescindibile per uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali» (sentenze n. 197 del 2019 e n. 117 del 2018). Senza l’allocazione delle relative risorse, tra l’altro, le Regioni meridionali subirebbero un grave danno anche per la probabile assenza di quanto necessario per cofinanziare gli interventi previsti dalla politica di coesione con ciò introducendo un’evidente violazione del sistema «comunitario».

Fra l’altro, la prevista riforma non sarebbe compresa dagli altri Stati membri, in particolare quelli da sempre insofferenti rispetto al sostegno finanziario al Mezzogiorno (con l’ulteriore supporto del PNRR); essi difficilmente accetterebbero che solo all’Unione dovrebbe farsi carico della solidarietà mentre lo Stato membro beneficiario non solo se ne disinteressa ma si muove in una direzione opposta! Lo Stato dovrebbe allora mantenere i propri obblighi di cofinanziamento dei quali comunque rimane responsabile?

Il principio di coesione (soprattutto dopo l’emissione del debito comune europeo per finanziare i Fondi di ripresa post-Covid) appare in contrasto, evidentemente, con regimi giuridici consistenti nell’attuazione di interventi che si sostanziano nel favorire territori e collettività già sviluppati a scapito di altri nello stesso Stato. Tale principio, in coerenza con l’art. 119 della nostra Costituzione, impone quindi la crescita delle zone più svantaggiate nell’interesse non solo dell’intero Paese membro ma di tutta l’Unione.

In realtà, i nodi da sciogliere sono ben più ampi, considerato che comunque finora i Fondi sono da tempo erogati ma non possono incidere in maniera decisiva sullo sviluppo. Essi non toccano, infatti, punti nevralgici quali la mancanza di riforme strutturali e di infrastrutture, la diffusa debolezza istituzionale, le carenze del sistema scolastico ed educativo, l’esclusione sociale, i tassi di emigrazione soprattutto intellettuale.

Altro che il «paradiso» di un Mezzogiorno con l’Autonomia finalmente adulto e libero di valorizzare le proprie capacità e intelligenze, come è stato sostenuto. La conseguenza sarebbe il rafforzamento delle diseguaglianze sociali e territoriali e l’amputazione dei diritti di cittadinanza italiana ed europea per le popolazioni del nostro Sud.

 

[Docente universitario, Bari]

Dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 21/05/2024

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