Se la democrazia è in stallo: i rischi della polarizzazione, di Mauro Magatti

La stabilità dei sistemi democratici dipende dalla loro capacità di ricomporre le fratture che continuamente si generano nella vita sociale. E soprattutto dalla loro capacità di contrastare le tendenze verso la radicalizzazione delle posizioni di fronte alle sfide della vita sociale.
Ormai da diversi anni, in particolare a seguito della crisi del 2008, tale processo di ricomposizione incontra crescenti difficoltà nelle democrazie occidentali. Così, invece che una convergenza al centro si assiste al rafforzamento delle ali estreme. L’ultimo segnale viene dalle recenti elezioni in due lander tedeschi, dove l’Afd — il partito di estrema destra (con frange che non nascondono esplicite simpatie naziste), è diventato il secondo partito (attorno al 15%) superando in entrambi i casi la Spd del cancelliere Scholtz. Per non dire nulla dello stato in cui versa la principale democrazia occidentale che si appresta a cominciare un annus horribilis: nessuno sa come può evolvere lo scontro tra Biden, presidente anziano e non troppo amato, e Trump, con le sue forzature che mettono in discussione lo stesso stato di diritto.
In molti Paesi si assiste a una polarizzazione, che è culturale prima che politica, tra progressisti — concentrati sui temi della sostenibilità e soprattutto dei diritti individuali — e populisti — che fanno della difesa degli interessi nazionali e dell’insofferenza verso il migrante le proprie bandiere.
La categoria di schismogenesi, proposta da Gregory Bateson, un autorevole psicologo americano, aiuta a capire quando sta accadendo. Con questo termine, Bateson coglie un particolare tipo di dinamica sociale che, innestando una spirale di mutuo rafforzamento nel comportamento di due gruppi, può arrivare a determinare un collasso sistemico.
In sostanza, la schismogenesi identifica una sequenza di interazioni che porta verso fratture talmente insanabili da mettere in discussione i presupposti stessi della convivenza. Una deriva che oggi si intravvede in vari Paesi, e in modo particolarmente evidente nella drammatica tensione che attraversa la società americana.
All’origine di questa polarizzazione c’è la crisi del modello espansivo della globalizzazione. Crisi a cui la sinistra progressista risponde proponendo di spingere ancora più avanti l’innovazione tecnologica e culturale; mentre la destra populista reagisce con una posizione opposta, basata sulla volontà di conservare i livelli di benessere e la propria «identità» culturale attraverso protezioni e chiusure. Una divaricazione che ha a che fare con le diverse risorse (di ordine materiale e culturale) di cui dispongono i rispettivi elettorati.
Dall’analisi di Bateson si può trarre un insegnamento. Se si esclude l’ipotesi che la spirale del conflitto si possa fermare con l’affermazione definitiva degli uni sugli altri — ipotesi irrealistica nella situazione attuale — la via d’uscita va cercata nella capacità di una delle due parti — o di qualche loro componente — di cambiare lo schema di gioco. Questa possibilità diventa più concreta se si parte dall‘osservazione che nessuna delle attuali proposte politiche è capace di definire una agenda di governo in grado di corrispondere in modo convincente da un lato alle esigenze dei sistemi sempre più complessi che caratterizzano il nostro tempo; dall’altro alle attese e alle paure di gran parte della popolazione, che si trova esposta a crisi ripetute e sempre più gravi. Uno stallo che si esprime nell’aforisma per cui la sinistra ha oggi capacità di governo ma non il consenso; la destra, il consenso ma non capacità di governo.
Non è la prima volta che accade. Lo si era visto negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, quando le forze politiche stentarono a gestire le conseguenze della prima guerra mondiale. Un fallimento che portò alla formazione del fascismo prima e alla guerra poi. E lo si è visto ancora nel corso dei difficili anni ’70, caratterizzati da intenso conflitto sociale che in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, sfociò nel terrorismo. In quest’ultimo caso, la soluzione fu trovata quando il neoliberismo di Reagan e Thatcher modificò l’intero quadro politico, spostando il partito conservatore su posizioni libertarie.
È difficile immaginare che l’attuale polarizzazione possa protrarsi senza conseguenze. Se si vogliono evitare collassi improvvisi, soprattutto nei Paesi dove le culture istituzionali sono più deboli, è necessario — seguendo Bateson — lavorare per far emergere — da destra o da sinistra — una nuova proposta politica in grado di identificare quei processi di ricomposizione sociale che possono mettere fine alla schismogenesi in corso.
Ad oggi, non si può certo dire che sia facile vedere segnali che vadano in questa direzione. Forse l’unica novità interessante può essere intravista nel nuovo labour di Keir Starmer. Le ragioni di ottimismo nascono dalla constatazione che non sono pochi i gruppi e le imprese che già stanno attivamente lavorando per ricomporre i lembi strappati del tessuto economico, culturale e sociale. Lontani tanto dal politically correct quanto dalla retorica populista, consapevoli della necessità di affrontare concretamente la sfida della sostenibilità a partire dalla sua dimensione economica. Ed è da lì che bisogna ricominciare.
https://www.corriere.it/editoriali/23_ottobre_23/se-democrazia-stalloi-rischi-schismogenesi-1d8fe50a-71d4-11ee-a36b-700898289415.shtml?refresh_ce

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