Chi pensa che gli immigrati non abbiano il desiderio di integrarsi nella società italiana, o non s’impegnino abbastanza, dovrebbe visitare una delle tante scuole d’italiano che offrono lezioni gratuite. Chi pensa che la solidarietà sia scomparsa, e che gli italiani siano ripiegati su se stessi, dovrebbe parlare con qualcuno delle migliaia di volontari che insegnano l’italiano agli immigrati. Una ricerca dell’Università di Milano (progetto Piper), ha indagato l’incontro tra questi due mondi, in collaborazione con la Rete Scuole Senza Permesso. È stata presentata ieri al convegno che celebra il ventennale di questa rete volontaria che raccoglie oggi quasi 40 scuole d’italiano distribuite a Milano e nell’hinterland. Di varia ispirazione, in parecchi casi di matrice ecclesiale o gestite da associazioni di ispirazione civile, come la scuola di Gratosoglio o quella di Porta Romana. Un primo sguardo ai dati rivela che si tratta di 515 intervistati, con un’età media di 35 anni, per il 72% donne, di cui quasi i due terzi provenienti da America Latina (33%) e Africa subsahariana (30%). Una fotografia che conferma la femminilizzazione delle migrazioni in Italia. Inoltre, l’83% dei partecipanti ha un’esperienza lavorativa schiacciata verso il basso: il 63% lavora, ma oltre la metà nel settore della cura. Che in Italia significa colf, assistenti familiari degli anziani (“badanti”), Oss (Operatori socio-sanitari), addetti alle pulizie. Un altro 19% lavora nei servizi urbani a bassa qualificazione, come la logistica e le attività esecutive dell’industria. Incide certamente il fatto che oltre il 40% è in Italia da meno di un anno. La scuola d’italiano è quindi un primo importante investimento per inserirsi, riuscire a orientarsi e migliorare in prospettiva la propria collocazione occupazionale. Un altro dato che colpisce è l’alta quota di partecipanti privi di un permesso di soggiorno valido: oltre il 30%. Esclusi dalla scuola ufficiale pubblica, sono accolti nelle Scuole della rete. Lavorano già (nella media 71%), ma la sera si sforzano d’imparare l’italiano. D’altronde, per il 40% sono giovani sotto i trent’anni, per quasi la metà sono ispanofoni dell’America Latina, e sperano di costruirsi una vita migliore nel nostro Paese. Immigrazione irregolare non vuol dire criminale, ma messa in parte aspirante a una vita normale, laboriosa, condivisa. Un altro dato positivo, poi, emerge: il segmento delle donne provenienti dal Nord-Africa e Medio Oriente (7% del totale) che arrivano di solito per ricongiungimento familiare, con età media di 38 anni, di cui una su quattro lavora. Studiano l’italiano soprattutto “per aiutare i figli a scuola” (57%), “per fare amicizie” (36%) e “per conoscere meglio la società italiana” (36%). Le scuole s’impegnano ad accoglierle aiutandole a gestire la cura dei figli: corsi al mattino, quando i figli sono a scuola, e servizi di baby-sitting. Le interviste in profondità rivelano la ricchezza delle aspirazioni dei partecipanti. Si possono ricondurre a tre filoni. Il primo vede la scuola come un ponte verso l’integrazione: per muoversi nella nuova società, comunicare, stabilire relazioni e amicizie (“La lingua è molto importante, non solo per il lavoro, ma anche per fare nuove amicizie e conoscere la cultura italiana. Per conoscere i tuoi diritti”). In secondo luogo, risalta un’immagine della scuola d’italiano come casa: un luogo accogliente e sereno (“Mi sento meglio che a casa; dimentico i miei problemi e le persone con cui parlare”). Una terza visione, non necessariamente contrapposta, è quella della scuola come risorsa (“Voglio imparare la lingua perché mi serve. Per il lavoro e anche per il permesso di soggiorno. Al futuro, per ottenere la cittadinanza, oppure per andare negli uffici, in ospedale, per parlare con le maestre, registrare”). Le scuole d’italiano sono luoghi di speranza: di persone e famiglie che pongono le basi per un futuro di convivenza e integrazione reciproca.
Da: Avvenire del 9 novembre 2025
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