In Medio Oriente è in corso un dramma che sembra non avere fine. 1.400 israeliani sono stati massacrati dai terroristi di Hamas. In risposta, le forze armate israeliane hanno ucciso più di 10.000 palestinesi durante le operazioni militari condotte a Gaza. Migliaia e migliaia di palestinesi sono stati costretti a lasciare Gaza, ma l’insicurezza pervade anche la popolazione israeliana. Approfittando della guerra, in Cisgiordania gruppi di coloni ebrei occupano con la violenza terreni palestinesi, fomentando ulteriormente il sentimento anti israeliano nel mondo arabo. Come se non bastasse, l’opinione pubblica occidentale è spaccata in due fronti contrapposti, come se il “giusto” e il “torto” fossero distribuiti nell’uno o nell’altro fronte. Perché si è giunti a questo punto? La mia risposta è la seguente: per via della progressiva sacralizzazione del conflitto medio orientale. Mi spiego. Lo scontro tra israeliani e palestinesi è divenuto sempre più dominato dalle rispettive componenti religiose.
Più che tra due popoli, quello scontro viene vissuto come uno scontro tra due religioni, l’ebraismo e l’islamismo. Per il primo, la Palestina è la terra biblica che appartiene spiritualmente agli ebrei, il luogo dove questi ultimi possono finalmente ricostituirsi come popolo, perché lì risiede la fonte della loro identità. Per il secondo, la Palestina è parte imprescindibile di un mondo mussulmano più ampio, dotato di una identità religiosa (sunnita) che va al di là delle barriere nazionali tra i Paesi arabi. In tale rappresentazione sacrale del conflitto non vi sono differenze all’interno delle rispettive comunità religiose, tanto meno differenze tra queste ultime e le componenti non religiose. La sacralizzazione è inconciliabile con il pluralismo, sia tra i credenti della stessa fede che tra questi ultimi e i non credenti. La sacralizzazione è l’espressione di una cultura fondamentalista, secondo la quale la religione è un fenomeno unitario, in quanto basata su fondamenti dogmatici. Ogni religione monoteista, nessuna esclusa, ha una vocazione fondamentalista, ovvero ha la predisposizione a disconoscere qualsiasi verità diversa dal dogma che l’ha fondata.
Tuttavia, in particolare in Occidente, i processi di secolarizzazione hanno progressivamente spinto le religioni a rappresentarsi, nella sfera pubblica, come parte di un tutto, non già come monopoliste del tutto. Così, il dialogo è diventato per loro una necessità per rapportarsi con il mondo esterno, oltre che per dare voce alle differenze al loro interno. Ciò ha consentito il mutuo riconoscimento tra i credenti, oltre che tra le loro comunità di fede. Tale mutuo riconoscimento è invece impedito dalla sacralizzazione del conflitto medio orientale. Per il ministro israeliano Amichai Eliyahu si dovrebbe usare l’arma atomica per liberare Gaza dai palestinesi e per il ministro israeliano Itamar Ben Gvir si dovrebbero armare i coloni israeliani (illegali) della Cisgiordania per espellere gli abitanti palestinesi (legali) di quest’ultima. Nello stesso tempo, per il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, alla fine della guerra non ci dovrà essere “neppure un ebreo tra il Giordano e il mare”.
La sacralizzazione impedisce di riconoscere le ragioni (e la stessa esistenza) dell’altro. Ecco perché è necessario che, all’interno del mondo israeliano e palestinese, si affermino leader che riportino la politica al centro del conflitto. “Quando abbastanza è abbastanza?”, si chiesero, a Oslo nel 1993, Yitzhak Rabin (allora primo ministro israeliano, poi ucciso da un fondamentalista israeliano) e Yasser Arafat (allora presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina). Da quella domanda bisogna ripartire.
La sacralizzazione della politica non riguarda solamente il Medio Oriente, ma anche il nostro Occidente. La secolarizzazione è messa in discussione dalla destra sovranista in Polonia e Ungheria, destra che ha fatto della cristianità il proprio “marchio identitario. La stessa destra in Italia e Francia non ha scrupoli a mobilitare “Dio”, oltre che “patria e famiglia”, a sostegno della loro politica, al punto di sacralizzare la stessa sovranità popolare (come se discendesse dall’alto dei cieli e non dal basso dei voti degli elettori). In America, le sette evangelicali, determinanti nella vittoria di Donald Trump nel 2016, alimentano la polarizzazione politica che sta bloccando il sistema di governo di quel Paese. Secondo le ricerche di John Huber e Ahmed Ezzeldin Mohamed, l’influenza della religione è cresciuta nelle elezioni mentre è diminuita nelle società occidentali. È divenuta una fonte sostitutiva di identificazione politica.
Così, inconsapevolmente o meno, essa ha finito per giustificare leader e politiche che vogliono mettere in discussione il contesto pluralistico delle società occidentali, interpretato come la causa della degenerazione valoriale di queste ultime. In nome di valori non-negoziabili (come la difesa della vita, della famiglia naturale o delle gerarchie tra generi), i leader della nuova destra hanno sferrato un attacco senza precedenti all’impianto liberale delle nostre società. Anche da noi, c’è chi non accetta che la politica sia il luogo della ricomposizione delle differenze.
Insomma, la sacralizzazione del conflitto medio-orientale costituisce un ostacolo alla risoluzione di quest’ultimo. La sacralizzazione è però una minaccia anche in Occidente, in quanto disconosce i fondamenti pluralistici delle nostre società. Non sarebbe meglio lasciare Dio alle coscienze individuali e trovare invece compromessi politici su tutto il resto?
https://www.ilsole24ore.com/art/sacralizzare-politica-non-aiuta-soluzioni-AFuOI8aB