Alla ripresa autunnale, dopo l’approvazione in prima battuta della riforma in tema di ordinamento giudiziario avvenuta alla vigilia della chiusura estiva del Parlamento, cosa possiamo aspettarci sul terreno delle riforme costituzionali? Per formulare qualche previsione legata alla fase politica che stiamo attraversando occorre, a mio avviso, portare l’attenzione su tre aspetti. Sugli umori variabili di un corpo sociale inquieto che appare sempre meno interessato alla politica condotta dai partiti, ma che pur sempre esprime la voce di quel popolo cui la costituzione affida sia la titolarità che l’esercizio delle sovranità nazionale. Sulla politica condotta da un governo caratterizzato da una notevole stabilità, espressione di una maggioranza che per la prima volta trova il suo perno nella presenza di una forza politica in passato esclusa dalla guida del paese in quanto non solo estranea, ma anche ostile ai caratteri originari del nostro impianto repubblicano. Infine, su una costituzione quasi ottuagenaria che nel complesso ha retto sinora bene le sorti del paese funzionando, peraltro, meglio sul terreno delle libertà che sul terreno delle funzioni di governo. Costituzione che sembra attualmente godere, grazie anche all’azione efficace dei suoi organi di garanzia, di un largo consenso nel corpo sociale.
Per il momento, considerata la fluidità del rapporto che lega tra loro questi tre elementi resta difficile, se non impossibile, formulare previsioni su quello che potrà essere il futuro prossimo del nostro assetto repubblicano. Futuro che, peraltro, molto probabilmente si verrà a giocare sul terreno della contrapposizione che si va accentuando tra quella «democrazia liberale» di cui abbiamo finora goduto in base alla costituzione vigente (frutto di una cultura costituzionale maturata sulle ceneri di una dittatura) ed un modello di «democrazia autoritaria» o «populista» dalle forme ancora incerte, ma che trova espressione in esperienze che si vanno sempre più affermando nel contesto internazionale. In Italia le linee di questa contrapposizione stanno oggi emergendo con sempre maggior chiarezza in alcuni campi: nella politica della sicurezza, nella politica della giustizia, nella politica dell’informazione e, in primo luogo, nella politica costituzionale dove la maggioranza, pur tra forti contrasti, sta svolgendo un vasto piano di riforme.
Un piano il cui punto di approdo viene insistentemente indicato nella forma di governo, cioè in quel progetto di «premierato» già votato dal Senato a cui la maggioranza sembra ancora non voler rinunciare, ma che nulla ha a che fare con il «premierato» di tradizione anglosassone dal momento che mira a concentrare, attraverso l’elezione popolare diretta del Primo Ministro, la massima quota di potere politico non nelle mani del «Governo in Parlamento», ma nelle mani della persona fisica chiamata a guidare il governo e l’amministrazione del paese.
Formula del tutto inedita nelle democrazie moderne in quanto priva di quei contrappesi che caratterizzano le forme del governo presidenziale e, pertanto, anche in grado di aprire la strada a forme di «cesarismo», quando il culto della personalità possa condurre ad oscurare quella separazione dei poteri su cui le moderne «democrazie liberali» si sono fondate. Questo progetto supera quindi ampiamente la soglia di una normale riforma costituzionale diretta a stabilizzare i governi dal momento che nella sostanza si presenta innanzitutto diretto a tagliare le radici antiautoritarie del nostro impianto costituzionale per sostituirle con radici diverse, e in un certo senso, opposte.
Il fatto è che, a ben guardare, il «premierato» come punto di approdo del processo riformatore in atto, ma anche come punto di partenza per possibili riforme future (in quanto «riforma delle riforme») non trova la sua prima motivazione politica in una esigenza di tecnica costituzionale diretta a rafforzare il governo, bensì nella volontà di operare una vera e propria «rivoluzione» culturale diretta a incidere e comprimere quei principi di pluralismo e garantismo che hanno orientato nel dopoguerra il processo costituente e che rappresentano tuttora le basi del nostro assetto repubblicano.
Dunque: democrazia liberale o democrazia autoritaria? Democrazia partecipativa, retta da comuni valori costituzionali, o democrazia maggioritaria pronta a calpestare le ragioni della minoranza? Continuità o rottura rispetto ad una storia costituzionale che ha trovato il suo perno non nell’autorità dello Stato, ma nelle libertà della persona e delle formazioni sociali? Questa si sta delineando come la scelta sostanziale che alla fine del percorso riformatore oggi in atto il popolo si troverà a dover operare in sede referendaria dentro una cornice europea e mondiale che certamente eserciterà la sua influenza. Scelta non lieve sulle cui conseguenze è bene che il paese prenda coscienza in tempo utile.
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