Rapporto Istat 2025: l’Italia è un (brutto) Paese per vecchi, di Luca Pisapia

Mercoledì 21 maggio a Palazzo Montecitorio il presidente Francesco Maria Chelli ha illustrato il nuovo rapporto Istat 2025. Il “Rapporto annuale 2025: la situazione del Paese”. E la situazione del Paese, in una parola, è drammatica. I soldi piovuti dal cielo dopo la pandemia si sono esauriti, o non sono mai stati utilizzati, e l’Italia è tornata a mostrare tutti i limiti strutturali del suo sistema sociale, economico e produttivo. L’Italia è un Paese dove si produce sempre di meno, in una situazione ambientale e sanitaria sempre più disastrosa. Dove si vive più a lungo, ma sempre peggio e con sempre meno soldi. Dove non nasce più nessuno e da cui i giovani partono appena possono. E dove sono le donne e i giovani le categorie deboli a essere più sfruttate. L’Italia è un (brutto) Paese per vecchi.
Secondo il rapporto Istat 2025, che fotografa l’anno appena trascorso per delineare le prospettive di quello futuro, la situazione non è per nulla rosea. Nel 2024 la produzione industriale si è contratta del 4% rispetto al 2023, quando già era calata del 2%. Per rimanere agli anni del governo Meloni, che di questi dati drammatici è responsabile tanto quanto i governi che l’hanno preceduta. Nel 2024 la crescita del Pil italiano è stata dello 0,7%, come nel 2023, molto meno di Francia (1,2%) e Spagna (3,2%). Sono aumentati in assoluto i posti di lavoro, è vero, ma solo quelli del «lavoro povero» a tempo determinato per gli over 50. Il risultato è che quasi sei milioni di italiani (un decimo della popolazione) vivono in condizioni di «povertà assoluta». Undici milioni (un quinto) sono «a rischio di esclusione sociale». E quattordici milioni (un quarto) sono «a rischio povertà».

Rapporto Istat 2025: i numeri smentiscono le bugie di Meloni sull’occupazione
Ad aprile la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si vantava di aver creato quel «milione di posti di lavoro» di berlusconiana memoria. È bastato un mese perché il rapporto Istat 2025 la sbugiardasse. L’occupazione nel 2024 è cresciuta in termini assoluti (+1,5%), dopo una crescita del 2,1 per cento nel 2023 e del 2,4 nel 2022. È vero, ma solo perché trainata dagli impieghi nei settori a bassa produttività e con bassi salari.
Oltretutto, l’80% di questa crescita è dovuto all’aumento degli occupati con 50 anni e oltre. Un dato legato alle riforme pensionistiche dei governi precedenti, che trattengono i lavoratori più a lungo, e al calo demografico. «Non è l’esito di una sciagura, come di solito viene fatto credere, ma di un’idea economica e di società», come spiega Roberto Ciccarelli su il manifesto.

Crollo dei salari reali: 10% in meno in cinque anni
In generale poi, a confermare il quadro a tinte fosche del Paese, il tasso di occupazione resta il più basso d’Europa tra i 15 e i 64 anni, soprattutto a causa dei livelli inferiori di partecipazione e occupazione dei giovani e delle donne. Tra l’altro va letto insieme al tasso di inattività che in Italia è il più elevato dell’Europa a 27 (33,4% contro una media del 24,6%).  La produzione industriale, come dicevamo, è diminuita del 4% rispetto al 2023. E il reddito reale da lavoro per occupato si è abbassato del 7,3% rispetto all’anno scorso.
In generale, i salari reali non hanno tenuto conto dell’inflazione, che pure è stata bassa per molti anni, e tra il 2019 e il 2024 hanno perso il 10,5% del potere d’acquisto. Questa perdita è quindi di gran lunga superiore di quella della produttività del lavoro che ad ogni modo, spiega il rapporto Istat 2025, «è il risultato dell’espansione dell’occupazione maggiore rispetto a quella del valore aggiunto». In buona sostanza, visto anche il calo della produzione industriale, questo significa sì più persone al lavoro. Ma un lavoro che produce meno ricchezza e meno salario.

Precari e sottopagati: donne e giovani ai margini del sistema
Per questo, secondo il rapporto Istat 2025 lo scorso anno un quinto dei lavoratori complessivi in Italia risultava «a basso reddito». Una condizione più frequente tra le donne (26,6%), i giovani con meno di 35 anni (29,5%) e i cittadini stranieri (35,2%). Oltretutto quasi la metà delle donne in Italia lavorano per lo più con contratti part-time o con altre tipologie di contratti intermittenti. Siamo al 42,4%, oltre 13 punti sopra alla media europea. Che l’Italia sia un (brutto) Paese per vecchi lo conferma il presidente dell’Istat Chieli quando spiega che «a destare preoccupazione è soprattutto l’aumento dell’espatrio tra i giovani tra i 25 e i 34 anni con una laurea: 21mila nel 2023, un record storico». I laureati che negli ultimi 10 anni hanno lasciato il Paese sono circa 97mila. Mentre in assoluto nel 2024 sono state 191mila le persone ad andarsene dall’Italia in cerca di migliori fortune.
Anche questo non accade per caso, ma per la lunga sequela di riforme scolastiche in senso peggiorativo cominciate negli anni Novanta e proseguite fino a oggi. Con un’idea di scuola come incubatrice di lavoratori sfruttati da regalare al miglior offerente. E così il rapporto Istat 2025 rivela che il livello di istruzione della popolazione italiana resta inferiore alla media europea. Solo due terzi degli adulti hanno un diploma di scuola superiore. E appena uno su cinque possiede un titolo universitario. Meno della metà della popolazione adulta possiede abilità digitali di base: il 45,8% rispetto alla media europea del 55,5%. E ovviamente persistono enormi differenze territoriali tra Sud e il resto del Paese.

Istat 2025: un italiano su dieci rinuncia a curarsi
Come abbiamo raccontato nel nostro articolato dossier su Valori, anche la situazione della sanità è drammatica. Il rapporto Istat 2025 conferma che nel 2024 un italiano su dieci ha rinunciato a visite o a esami specialistici, a causa delle lunghe liste di attesa o per la difficoltà a pagare le prestazioni sanitarie. E come detto all’inizio si vive di più, ma si vive peggio. Nell’anno passato è infatti aumentata la speranza di vita, ma si è ridotta la quota di anni vissuti in buona salute, in particolare – di nuovo – per le donne. Se infatti si è raggiunto un nuovo massimo storico dell’aspettativa di vita (81,4 anni per gli uomini e 85,5 per le donne), la speranza di vita in buona salute parla di 59,8 anni per gli uomini e 56,6 per le donne. In un solo anno si stima che le donne abbiano perso 1,3 anni di vita in buona salute. Il punto di caduta più basso dell’ultimo decennio.
Il rapporto Istat 2025 osserva miglioramenti continui a partire dagli anni Cinquanta nei comportamenti legati alla salute: calano i fumatori e cresce l’attenzione alla pratica sportiva. Anche qui però si tratta di false speranze. È vero che è diventato uso comune non fumare in casa o macchina con i bambini, per dirne una. Ma queste modifiche comportamentali della popolazione non reggono all’urto dei tempi, dovuti ai cambiamenti climatici e di alimentazione. Aumentano infatti casi di sovrappeso e di obesità già dall’infanzia, si diffondono nuove forme di dipendenza (anche di sigarette elettroniche, ad esempio) e di consumo di superalcolici. Dal 2019 poi è in aumento anche il disagio psicologico. Coinvolge in particolare gli anziani, ma ancora una volta è in crescita soprattutto tra i giovani e le donne.

Clima e disastri: l’Italia perde 134 miliardi
Infine, racconta il rapporto Istat 2025, l’Italia è al secondo posto tra i Paesi europei per perdite economiche dovute a eventi climatici estremi. Ancora trattati come una fase emergenziale, i cambiamenti climatici si sono trasformati già da diversi anni in un problema strutturale.
Tra il 1980 e il 2023 l’Agenzia europea per l’ambiente stima per l’Italia 134 miliardi di euro di perdite dovute a cause ambientali, collocandola al secondo posto nell’Europa a 27 dopo la Germania con 180 miliardi. E prima della Francia con 130. Quasi tremila comuni italiani (circa il 35% del totale, corrispondenti al 37,3% del territorio nazionale) sono interessati da almeno una categoria di rischio naturale associato alla maggior frequenza degli eventi climatici estremi. «Gli investimenti e le strategie per la transizione verde, più che un costo, possono diventare fattore di competitività», ricorda l’Istat. Sempre che qualcuno sia all’ascolto.

valori.it/rapporto-istat-2025/

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