Al termine delle sue riflessioni, postate in SettimanaNews il 10 maggio scorso, sulla tragedia infinita di quella “terra” che, con tremore, chiamiamo “terra santa”, Luca Mazzinghi scriveva: «Sono solo riflessioni di uno che, come me, prova a credere nella Bibbia come Parola di Dio in parola umana e si sforza di annunziarla e di insegnarla da una vita. Di una cosa sono sicuro: nella questione dell’interpretazione di questi testi relativi alla “conquista” della terra, legati all’attuale situazione che si è creata tra Israele e Palestina, si intreccia il futuro stesso della Bibbia, come libro “credibile” e come parola di vita data da Dio all’umanità».
È in gioco la credibilità della Bibbia
Dopo la dichiarazione di modestia posta in premessa, «solo riflessioni di uno che prova a credere nella Bibbia», vengono parole che più impegnative di queste non si potrebbero scrivere né averle pensate. Nel tentativo del governo di Israele di legittimare, citando i testi biblici sulla “terra promessa”, il possesso dei cosiddetti “territori occupati” e la guerra che si combatte per estenderli ulteriormente e cancellarne, praticamente, la presenza dei Palestinesi, il valore in gioco è la credibilità stessa della Bibbia.
Salvaguardarne la credibilità, in questa «guerra mondiale a pezzi», carica un po’ dovunque di motivazioni pseudoreligiose, è quindi un dovere ineludibile di tutti coloro che leggono e meditano la Bibbia con fede, ma anche di quanti vi riconoscono “il grande codice” di tutta una civiltà. Ricavarne strumenti di legittimazione della propria guerra, ingaggiata a difesa e promozione dei propri interessi, da parte di una delle parti in lotta fra di loro è un’operazione di stravolgimento radicale del suo stesso senso.
In essa, infatti, i credenti di varie religioni, appartenenti ai popoli più diversi, scorgono e accolgono la parola di Dio che, rivelandosi agli uomini, li chiama alla comunione con sé e fra di loro nell’unità della famiglia umana. Non c’è più alcuna possibilità di immaginare nella fede alcun Dio che si metta in lotta accanto ad un popolo e contro un altro.
Nella realtà dei fatti, le narrazioni di lotte, battaglie e guerre, con Dio stesso che, al centro della mischia, combatte in favore di una delle parti avverse, ricorrono di frequente nella Bibbia. Ne sono state determinate, in non pochi aspetti, le istituzioni religiose e civili che si sono venute formando, sia lungo le vicende narrate dai testi biblici e sia nel loro riprodursi nell’immaginario religioso collettivo di quanti ne fanno costante memoria.
Conflitti di ogni genere, da quelli della comune vita quotidiana a quelli delle guerre più tragiche sono stati mille volte vissuti, da ciascuna delle parti in causa, dotate ciascuna di un bel corredo di citazioni bibliche, sotto l’ombrello della presunta protezione di Dio: «Ecco, alla nostra testa, con noi, c’è Dio; i suoi sacerdoti e le trombe lanciano il grido di guerra contro di voi» (2Cr 13,12).
Nel mondo antico l’assetto sociale ha sempre trovato il fondamento della sua solidità nella concezione sacrale del potere, che trovava il suo emblema nella figura del pontefice massimo, il re-sacerdote.
Ma anche nel mondo cristiano premoderno, per quanto agitato dalla dialettica del celebre detto di Gesù, «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21), il potere politico ha sempre goduto di una legittimazione sacrale che gli permetteva, insorgendo un qualsiasi conflitto, di considerare Dio come il proprio alleato.
Il richiamo inappropriato alla Scrittura
I cristiani hanno fatto guerre, e si sono fatti guerra fra di loro, inalberando ciascuno a capo delle sue schiere il vessillo del «Dio con noi!». Teologi, predicatori e mistici si sono dati da fare a collezionare episodi e testi della sacra Scrittura per giustificarne le imprese e sostenerne le ragioni.
Ciò che ha reso possibile nel passato un tale costume, e tale ancora lo rende, è l’inquadramento dell’esperienza religiosa in un sistema religioso, nel complesso di istituzioni religiose che lo compongono.
Il testo sacro diventa come la Carta costituzionale che sta a fondamento del sistema-religione, nel quale scorre la vita del singolo e dal quale la vita della società civile, anche in una condizione di laicità dello stato, resta in tanti aspetti non poco determinata. La parola di Dio vi risuona ben più nei megafoni della comunicazione pubblica, che nel segreto delle coscienze.
La parola di Dio conserva i timbri della legge, ha una funzione oggettivante e, anche se non precipita nel fondamentalismo, si impone al soggetto dal di fuori e dal di sopra, anche quando non penetra nella profondità della sua libertà e della sua coscienza.
Nel caso di Israele va ricordato che il 19 luglio 2018 la Knesset ha approvato la legge per la quale Israele è definito “Stato ebraico”. Si tratta di una connotazione etnica che comporta anche una connotazione religiosa, che si pretende sussista indipendentemente dalla fede dei suoi cittadini.
Restando così le cose, non stupisce che il primo ministro di Israele, nel suo discorso al Congresso degli Stati Uniti del luglio 2024, ne abbia esaltato i combattenti che, «come dice la Bibbia, si alzeranno come leoni. Si sono levati come leoni, i leoni di Giuda, i leoni di Israele. Tutti sono impregnati dello spirito indomito dei Maccabei, i leggendari guerrieri ebrei dell’antichità» per concludere con l’invocazione rivolta a Dio: «Che Dio benedica Israele. Che Dio benedica l’America. E possa Dio benedire per sempre la grande alleanza tra Israele e America».
Non ad alcuni uomini soltanto
Cambiano radicalmente le cose quando si fa il passo decisivo, sempre con la Bibbia in mano, dal piano della religione a quello della fede, quando cioè dall’ascolto del Dio del sistema politico-religioso si si passa all’ascolto del Dio della coscienza. Allora si sperimenta nella propria interiorità quanto i Padri del concilio Vaticano II hanno lasciato scritto sulla sacra Scrittura come luogo della rivelazione di Dio: «Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2).
È detto «… agli uomini», non ad alcuni uomini, non ad un popolo. Se è vero che ha parlato anche “a un popolo”, resta pur vero che in questo dialogo interiore del credente con Dio «cresce la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cf. Lc 2,19 e 51), sia con l’intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali».
Il rapporto tra il credente e la Parola, pur nella massima attenzione del soggetto a quanto vi è detto, diventa quindi sommamente soggettivante.
In una simile atmosfera spirituale si mette in moto quel circolo ermeneutico nel quale non solo la Parola interroga l’uomo, ma è anche l’uomo che interroga la Parola. Il soggetto credente è plasmato dalla Parola, ma all’interno di un processo costante nel quale egli, interrogando la parola di Dio ai fini della decisione fondamentale della sua vita, la sente risuonare dalla profondità di Dio stesso, e non più dal luogo e dal tempo nel quale l’estensore del testo sacro ha dipanato il suo discorso.
Nella profondità di Dio egli non scorgerà più spazio alcuno nel quale uno possa collocarsi da una parte e un altro dall’altra, in modo da poter farsi guerra l’uno contro l’altro.
Nella testimonianza resa all’esperienza di fede dei credenti, di qualunque religione o confessione siano, degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani, si potrà salvaguardare la credibilità della Bibbia.
Qualora mancasse una lettura consapevolmente credente delle sue pagine, essa resterebbe una voluminosa cartella di documenti della singolare vicenda storica del popolo di Israele, dalla quale il governo dello stato di Israele potrà trarre le narrazioni che gli servono per fare buona propaganda al suo progetto politico.
Le Chiese cristiane che, per essere legittimate a farlo, possono accampare il titolo della loro bimillenaria meditazione della Bibbia, hanno oggi il compito e il dovere di mantenere alta la fede nella parola di Dio che risuona nel profondo dei testi sacri, a smentita di quanti, per neutralizzarne i doveri conseguenti, ne strumentalizzano le cose dette nella superficie delle contingenti vicende della storia.
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