Politica e follower, il prezzo del consenso, di Antonio Polito

Giorgia Meloni: 7,3 milioni di voti. Chiara Ferragni: 29,6 milioni di follower. Elon Musk: 225 milioni di utenti giornalieri su X. Questi tre personaggi si sono intrecciati nel dibattito pubblico italiano nell’ultima settimana, diventandone i protagonisti. Ma sono commensurabili tra di loro? E se non lo sono, secondo un’antica separazione delle sfere di influenza che sanciva il primato della politica, perché la premier di un grande Paese occidentale invita Musk alla festa di partito, e poi polemizza con il pandoro della Ferragni, e poi il marito della Ferragni le risponde attaccando la ministra Santanchè e il governatore Fontana, eccetera eccetera? Che cosa sta accadendo di nuovo in quella che Habermas chiamava la «Sfera pubbalica», che non c’entra niente con «Sfera ebbasta» ma è quell’ambito in cui nelle moderne democrazie si incontrano società civile e sistema politico?
Sta succedendo che l’ormai antico processo di erosione e crisi della democrazia rappresentativa classica, in cui i parlamenti svolgevano la funzione del dibattito democratico informato e ponderato, è stato accelerato dall’esplosione del web e dei social. Questa ha moltiplicato i poteri per così dire «non responsabili» democraticamente. Che cioè non sono soggetti a scadenze fisse al giudizio dell’elettorato, ma ciò nonostante influiscono o addirittura condizionano la decisione pubblica.
Gli influencer, lo dice la parola stessa, sono la punta dell’iceberg, quella che si vede di più. Talvolta implicitamente, creando una cultura. Come il rapper che si fa appropriatamente chiamare Baby Gang, e che di recente è stato condannato a 5 anni e due mesi di carcere. Talaltra esplicitamente, come nel caso di Fedez, tentando cioè di orientare il consenso politico, dal palco di un festival canoro o sindacale. Ma ci sono anche poteri per così dire più «nobili» che funzionano nello stesso modo. Per esempio le Ong, organizzazioni non governative che spesso usufruiscono di finanziamenti pubblici (come in Germania), oppure forniscono un servizio pubblico (come in Italia), e perciò si impongono all’ascolto del pubblico; è il caso della «Mediterranea» di Luca Casarini che, contestando la politica del governo italiano sui migranti ha ottenuto anche il sostegno pubblico del Pontefice.
E poi naturalmente — per fortuna, aggiungerei — ci sono i media, anche quelli più tradizionali come i giornali. Si deve infatti a una giornalista della vituperata carta stampata (Selvaggia Lucarelli su il Fatto) se un cospicuo numero di follower digitali ha compreso l’ambiguità della beneficenza che sostiene il metodo-Ferragni, provocando un intervento con sanzione e multa dell’Antitrust. Però questo nuovo scambio di influenze funziona in entrambe le direzioni. Nel senso che anche i poteri «democraticamente responsabili», come i rappresentati eletti che devono sottoporsi al giudizio quasi quotidiano dei sondaggi e a quello frequente delle urne, tendono sempre più a funzionare secondo le regole del web.
Durante il dominio della televisione come mezzo di comunicazione di massa, la «democrazia del pubblico» si esplicava giudicando l’offerta politica in un’unica grande arena collettiva. Berlusconi andava in tv, e prometteva qualcosa. Gli elettori giudicavano se credergli o no, e si comportavano di conseguenza. Il potere di influenza del mezzo era grande, ma grande era anche il rischio che comportava (in fin dei conti il Cavaliere ha perso due volte le elezioni, e in entrambi i casi controllava sia la tv pubblica sia quella privata).
Oggi invece il grande stadio virtuale in cui si radunavano gli elettori per assistere al duello elettorale (il primo caso del genere fu il dibattito Kennedy-Nixon del 1960) non c’è piùL’area pubblica si è frammentata in una miriade di bolle mediatiche sul web, insiemi e sottoinsiemi di follower che si intersecano tra di loro; facendo sì, per esempio, che un elettore di Giorgia Meloni sia anche un follower di Chiara Ferragni e magari segua anche un account no vax o no euro, e così via dicendo. I politici dunque sono soggetti alle stesse regole degli influencer. Anche loro possono essere chiamati a rispondere, se non penalmente di sicuro politicamente, all’accusa di «pubblicità ingannevole»; che, non a caso, è ormai la più frequente negli scambi polemici e negli appelli ai gran giurì. Si è chiamati a giustificare non la bontà di una scelta, ma la sua coerenza con la propaganda precedente. Un bel guaio in un Paese in cui più si sparano grosse dall’opposizione e più rapidamente si va al governo.
A prima vista questa novità può apparire come un’espansione della «glasnost», della trasparenza democratica: anche chi gestisce la cosa pubblica deve render conto ogni giorno, anzi ogni ora, esposto com’è nella casa di vetro del web. Ma in realtà introduce un cambiamento dalle conseguenze oggi non calcolabili: a guidare il processo politico non è infatti più l’offerta, ma la domanda. Chi si candida a rappresentare gli elettori non offre più le sue soluzioni al loro giudizio, ma ne assume le richieste come prezzo del consenso. E qualcosa che si avvicina molto al «mandato imperativo» che i Cinquestelle volevano introdurre riscrivendo la Costituzione, la quale invece lo esclude considerandolo un pericolo per la democrazia, come del resto in tutti i sistemi liberal-democratici.
Se il totalitarismo di un tempo puntava a mobilitare il popolo, a farlo marciare, un nuovo «autoritarismo democratico» può preferire invece che il popolo non partecipi, e dunque coltiva con cura il disinteresse crescente e collettivo per la politica, perfino il suo disprezzo. Naturalmente i confini di questa post-democrazia sono estremamente labili. «Demos» e «populus», radici etimologiche dei termini «democrazia» e «populismo», significano in fin dei conti la stessa cosa in greco e latino. Eppure mi sembra chiaro che alcune rilevanti decisioni pubbliche come il rifiuto di ratificare un Trattato europeo già firmato, che ha accomunato non a caso pezzi di maggioranza e di opposizione, non siano il frutto di quel dibattito informato e ponderato in cui consisteva la democrazia rappresentativa, ma piuttosto di un’ansia da «pubblicità ingannevole» che la politica ha fatto propria, pur rimproverandola alle star del web.

www.corriere.it/opinioni/23_dicembre_23/politica-follower-prezzo-consenso-7e7e8752-a1bf-11ee-b35d-e5d6f5c3a4f9.shtml

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