Il Vangelo odierno: In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 27-30 – IV di Pasqua/C ).
La guerra, come la lussuria – diceva Shakespeare – non passa mai di moda. Quindi siamo sempre, in ogni epoca, in “tempi di guerra”: E la guerra è l’esatto opposto di ogni bontà e cura dell’altro. La guerra, per definizione, è cattiva, è sporca, è ambigua. Per quanto esista il legittimo dovere di difendersi una situazione di guerra è sempre e comunque uno spazio dove parole e gesti buone sono un’eccezione e quelle cattive una regola. Una escalation che sembra non aver fine, come la guerra di aggressione di Putin al’Ucraina e lo sterminio dei palestinesi, firmato Netanyahu e collaboratori. «Le cose cominciate nel male, dal male traggono forza», ancora William Shakespeare nel suo Macbeth.
Oggi è la domenica del Buon Pastore, il Signore Gesù. Abbiamo usato molto la parola “pastore”, in questi giorni. Ad oggi, quello universale c’è, e si chiama Leone XIV. Per non distrarci troppo con il lato umano della vicenda elezione del pontefice, dobbiamo chiederci, più che sul nuovo papa, su Cristo Buon Pastore e pregarlo per il papa, il mondo, le zone di guerra, per noi… Lui è il solo e perfetto Pastore buono perché vive un rapporto con le sue pecore che non è quello dei mercenari; oggi li chiameremmo dittatori, populisti, guerrafondai, predatori di piccoli e donne, corrotti, mafiosi e via discorrendo. Il pastore autentico guida, cura, ama le pecore e queste lo seguono, perché conoscono la sua voce. E’ il tema noto e attualissimo del comunicare. Il leader fedele è colui che sa comunicare, cioè è attento alle persone e a quanto comunica, in termini di verità e di ben vivere. La comunicazione autentica e sincera non è solo garanzia di un buon rapporto del leader con i membri del gruppo, ma è anche condizione indispensabile perché ogni comunità realizzi le sue finalità. Ma la comunicazione autentica e sincera non basta. Il pastore è anche colui che da la vita, difende le pecore e non permette che nessuno le strappi dalla sua mano. E’ il buon pastore.
Ma di buon pastori ce ne sono pochi, nella Chiesa come nella società, in politica come nelle varie istituzioni. Forse è il caso di dire “pochi e buoni”. Si riconoscono subito: non urlano, non offendono, sono discreti, parlano poco e agiscono molto. Sono veramente buoni: lo si vede dagli occhi, dalla sensibilità delle mani, dai gesti delicati. Dobbiamo, non solo individuarli, ma anche frequentarli spesso. Ne abbiamo assoluto bisogno. Non so se oggi ne avvertiamo la mancanza più di ieri, ma comunque ne abbiamo bisogno. In giro ci sono fin troppi cattivi, violentatori, imbroglioni, corrotti, razzisti, mafiosi. Tutti accomunati dal fatto, in un modo o nell’altro, di pensare e attuare cattiverie: di organizzarsi e associarsi per divorare gli altri; sono professionisti ripulitori, di dignità o risorse, a seconda dei casi.
Soprattutto di questi tempi dobbiamo di più ascoltare buona musica, leggere belle poesie, portare nel cuore la voce di chi è buono, ci consola, ci educa e ci dà forza. Forse dovremmo smetterla anche di moltiplicare sui social le frasi dei vari cattivi, imbroglioni, corrotti, razzisti, mafiosi. Basterebbe fare solo riferimenti veloci e fugaci a quanto dicono e fanno, non di più. Essi non meritano nessuna pubblicità gratuita (pubblicando le loro foto, per esempio), nessuna fiducia perché sono buoni solo a far del male, in ogni modo e in ogni spazio. E rivolgere cuore e mente a chi è buono, anche nel suo esercitare il potere sugli altri.
“Un’autorità autentica – scrive Dietrich Bonhoeffer nel suo Sequela – sa di essere legata in modo strettissimo alla parola di Gesù: Uno solo è il vostro Maestro, e voi siete tutti fratelli (Mt 23,8). La comunità non ha bisogno di personalità brillanti, ma di fedeli servitori di Gesù e dei fratelli. Non le mancano elementi del primo tipo, ma del secondo. La Chiesa darà fiducia solo al semplice servitore della parola di Gesù, perché sa di non esser guidata in questo caso dalla saggezza e dalla presunzione degli uomini, ma dalla parola del buon pastore. Il problema della fiducia spirituale, così strettamente connesso a quello dell’autorità, è deciso dal criterio della fedeltà nel servire Gesù Cristo, non in base alla disponibilità di doni straordinari. Si può riconoscere autorità nella cura pastorale solo al servitore di Gesù Cristo, che non cerca autorità per sé, ma che si inchina all’autorità della Parola, come un fratello tra i fratelli”.
Rocco D’Ambrosio [presbitero, docente di filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma; presidente di Cercasi un fine APS]