Nella notte dell’estrema destra. «Ecco perché nulla è ancora cambiato», di Diego Motta

In fondo, a destra, nulla è cambiato. Saluti romani, appelli alla presenza. Cinque giorni fa, ad Acca Larentia, snodo chiave nella geografia post-fascista. Come Salò, come Predappio. Perché quelle immagini non indignano? Occorre compiere un viaggio nella memoria del Paese, per capire a che punto siamo della notte. E per scoprire, forse, che questa vicenda interessa soprattutto alcune minoranze politicizzate, mentre lascia al momento indifferente buona parte dell’opinione pubblica. Nel frattempo, la destra di governo è cambiata e ha saputo emanciparsi da quella parte di storia, pur senza ripudiarla, e adesso viaggia nel solco di altre destre continentali pronte a prendersi nuovi spazi in Europa e non solo, con ricette abili nel mixare passato e presente, in chiave nazionalista.
«Se ci riferiamo ad Acca Larentia, dobbiamo tornare subito alla carne viva dei fatti, che alimenta da sempre l’immaginario di questo mondo» ragiona Domenico Guzzo, docente di storia contemporanea e storia del terrorismo all’Università di Bologna. «Due militanti che uscivano dalla sede del Movimento sociale italiano in questa zona di Roma che vengono uccisi in un’imboscata tesa da un commando di estrema sinistra a volto coperto e, nelle ore seguenti, la morte di un terzo ragazzo a seguito di scontri con le forze dell’ordine. Non si capiscono quei fatti se non si ritorna alla lotta storica tra quartieri neri e quartieri rossi nella Capitale, in corso quegli anni, con il Msi che aveva deciso di entrare in zone della città storicamente non proprie, tentando di uscire dal ghetto».
È l’immagine del confine, della frontiera che ha resistito in questi 46 anni, anche se nel frattempo quel mondo è cambiato: all’epoca l’estrema destra metteva insieme un certo ceto sociale molto elevato e i popolani delle borgate, spesso con molti trascorsi criminali. «Oggi invece tra chi partecipa a queste adunate c’è soprattutto la piccola borghesia impoverita e l’ex classe operaia senza più riferimenti, ma le ragioni della militanza sono le stesse: si finiva a destra, all’estrema destra post-fascista, per un forte senso di frustrazione. Si diceva: meglio essere principi all’inferno che soccombenti in paradiso».
Il lungo cammino “eretico”
Di questo mondo, che oggi si presenta con il volto frastagliato di una miriade di sigle capeggiate da Casapound e Forza nuova, oggi su sponde diverse dello stesso fiume, la “pancia” del Paese sa poco. Né vuole troppo sapere. «Sulla memoria divisa, abbiamo una letteratura sconfinata – si limita a dire Guzzo -. Niente sembra essere cambiato. Certo, adesso incide sulla capacità di reazione degli italiani lo scadimento generale, che alimenta il brodo di coltura del qualunquismo. La novità semmai a livello istituzionale è che per la prima volta, c’è un partito di governo che si porta dietro un rapporto pregresso con quegli ambienti».
Qui l’intreccio tra chi è rimasto estremista e chi ha fatto il salto in politica è complicato da individuare e da sciogliere: in mezzo ci sono stagioni diverse, dalla rottura tra i post-fascisti e Giorgio Almirante alla nascita della Seconda Repubblica con lo “sdoganamento” di Gianfranco Fini e Alleanza Nazionale, passando per Fiuggi. «Il cammino eretico è durato anni, poi da un decennio a questa parte, con l’avvento di populismi e sovranismi, si sono aperti spazi impensabili. L’estrema destra vive ancora all’insegna di una sola parola d’ordine, che tiene insieme tutti: identità. C’è un vecchio mondo da difendere, l’Occidente. Su come farlo, poi, le strategie prendono strade diverse». E i percorsi di vita cambiano.
La percezione degli italiani
Un dato, forse, può spiegare quel che sta accadendo. L’estrema destra, in Italia, a livelli elettorali non esiste. O quasi. Non va mai oltre l’11,5%. Ha una consistenza più che residuale e, in virtù di questo, non condiziona in nulla e per nulla i “cugini” di allora, oggi Fratelli d’Italia. Semmai, è proprio sulla proposta del partito fondato da Giorgia Meloni che occorre concentrarsi per capire la metamorfosi in atto. Nel giugno scorso, una ricerca presentata alla Casa della Cultura di Milano da Marco Valbruzzi e Sofia Ventura, per conto della Friedrich Ebert Foundation, ha evidenziato con chiarezza come si sia profondamente modificata l’offerta e la domanda politica di destra nel nostro Paese (e non solo).
Se chiedete di definire a un elettore di centrodestra la natura di un partito come Fratelli d’Italia, vi risponderà che si tratta di un partito conservatore di destra, al pari dei gollisti francesi. È così per circa 8 elettori su 10 di Fdi, che considerano perciò del tutto “normalizzata” la formazione guidata dall’attuale presidente del Consiglio. Specularmente, invece, per l’80% degli elettori di centrosinistra, Fratelli d’Italia va considerato un partito postfascista o addirittura neo-fascista. È la sintesi perfetta di due Italie che non si guardano e non si parlano più: per una, quella minoritaria oggi, Acca Larentia è uno scandalo (oggi più di ieri, nonostante l’appuntamento annualmente si ripeta) per l’altra, semplicemente, è un fatto come altri. Potrebbe anche non essere mai esistita.
«Il motto tradizionale di Giorgio Almirante e del suo partito era: non restaurare, non rinnegare – spiega Marco Valbruzzi, che insegna Scienza politica all’Università di Napoli Federico II –. Fratelli d’Italia certamente non vuole restaurare nulla: nessun regime fascista tornerà dopo il Ventennio. Meloni ancora sembra non riuscire però a rinnegare la sua storia, che è anche una vicenda personale e collettiva, come dimostra il gruppo dirigente che, anche ai massimi livelli istituzionali, ha portato nell’esperienza di governo».
Il legame con le altre destre
Nel frattempo, la destra istituzionale che in Italia ha saputo ben assorbire, fino quasi a cancellarle nell’immaginario dei cittadini, le pulsioni estreme filtrate nei raduni dei nostalgici, si è legata a doppio filo con i movimenti gemelli nel resto d’Europa. Il trait d’union si chiama “welfare chauvinism”, lo sciovinismo sociale: una teoria secondo cui allo Stato spetta non la redistribuzione (troppo complicata in termini di equilibri sociali) bensì la distribuzione dei benefici legati allo Stato sociale. I destinatari di queste politiche sono i cosiddetti “nativi”.
Questo principio, che è alla base di tanti slogan all’insegna del “prima gli italiani”, ha un valore identitario ed è più forte dell’idea stessa di sovranismo e populismo, secondo chi studia i fenomeni politici. «Lo sciovinismo sociale è una ricetta condivisa della destra europea, da Wilders a Le Pen, fino alle formazioni conservatrici nordiche. Si tiene insieme l’interventismo statale con la necessità di dare garanzie ai cittadini storicamente radicati in un territorio – osserva Valbruzzi -. L’agenda è di tipo materialista: le priorità a fine 2022 erano caro-energia, inflazione, lavoro e sicurezza». È un’altra agenda e funziona assai di più oggi rispetto ai temi “ideali” della concorrenza di sinistra. «Meloni è stata molto brava a tradurre questo bisogno di rappresentanza nella versione del partito conservatore di stampo europeo e a gestire con disinvoltura e diverse ambiguità il rapporto controverso con il passato».
In questo senso, la galassia frammentata dell’estrema destra, pesante sul piano simbolico ma ininfluente dal punto di vista del peso politico, ha osservato con una certa soddisfazione i passi compiuti in questi 15 mesi di governo, registrando tanti “non detto”. «Da vera equilibrista, la premier ha saputo incarnare la replica giovane del Berlusconi del ‘94» continua il politologo che insegna a Napoli. Nel frattempo, l’epoca storica segnata da paure, cospirazioni e complotti continua a essere carburante di consenso. «L’estrema destra osserva e aspetta magari un passo falso di chi è al potere, per tornare all’attacco anche nei palazzi che contano di più». È nel suo Dna e forse anche per questo un gesto di nuova “rottura” con quel mondo è atteso ancora di più.

www.avvenire.it/attualita/pagine/viaggio-nella-notte-dellestrema-destra-ecco-perch-nulla-ancora-cambiato

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