Nati per qualcosa, di Bruna Capparelli

Come spiega Massimo Recalcati, sulla scorta di Lacan, ne Il mistero delle cose, la realtà è l’insieme delle abitudini che rendono tutto sempre uguale e sicuro; il reale, invece, è ciò che si manifesta quando un evento apre una breccia nel ripetersi dei giorni e delle opere, imponendo un risveglio: malattia, innamoramento, lutto, nascita. Quando Lucio Fontana tagliò una tela lo rese visibile: la superficie uniforme della realtà squarciata da una ferita ci mise faccia a faccia col reale, rivelando che il fondamento delle nostre certezze è a volte uno sfondo di cartapesta.
Per rimanere nella realtà si può anche dormire: tutto va avanti e si vive per sentito dire o per procura. Per stare nel reale, invece, occorre essere prima svegli e poi coraggiosi. Gli scrittori che si misurano con il reale non cercano premi: scrivono per gli uomini e per il loro destino. Li riconosci perché attorno alle loro parole si crea una comunità, non una massa o una bolla di consenso.
Siamo tutti guidati da domande irrisolvibili: è tutto qui o c’è dell’altro? Che cosa c’è fuori dalla gabbia della realtà? Dove trovare il coraggio di uscirne? Domande che i giovani potrebbero rivolgere ogni giorno ai loro maestri, ma spesso non lo fanno. Perché?
La trilogia di Daniele Mencarelli (La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza, Sempre tornare) è il racconto autobiografico di un giovane che, deluso dalla realtà, precipita nelle dipendenze ma non smette di cercare salvezza. La trova grazie alla madre e ai bambini dell’ospedale Bambin Gesù di Roma, dove lavorava temporaneamente come addetto alle pulizie. I ragazzi sentono nei libri di Mencarelli la stessa fame di destino che lo ha salvato, e si aggrappano a un testimone del reale, che non ha rinunciato a se stesso nonostante le cadute.
Così scrive il diciassettenne Daniele in Sempre tornare, mentre lavora in un campo durante la sua fuga in autostop:
«La fame di destino mi perseguita da sempre. Ci penso sempre al destino… L’uomo di fede lo chiama provvidenza. L’uomo che non crede lo chiama caso. Chi vive a metà strada lo chiama fato. Io oscillo. Per sperare davvero ci vuole una forza disumana, lo stesso per disperare. Ma di una cosa sono certo: per la parte di destino che dipende da me, farò sempre di tutto per conoscermi al meglio. Fin da ragazzino, una sicurezza è venuta spesso a visitarmi: “Io so fare qualcosa”. Il problema è scoprire quale».
I ragazzi oggi sono consumati da questa «fame di destino», e tocca alle agenzie educative rispondere a questa fame. All’università, per esempio, non è riempiendo di nozioni slegate che un giovane trova il gusto del reale. Troppo spesso, le retoriche di destino che vi si diffondono finiscono per imporre comportamenti invece che favorire la scoperta dei talenti.
Per riformarla occorre restituirle la sua forma autentica: mettere ogni studente in condizione di scoprire per che cosa è nato. O l’università diventa dinamica, ruotando attorno a ciò che ciascuno porta al mondo, oppure continuerà a ridursi a catena di montaggio e parcheggio. Ogni ragazzo ha diritto di uscire dall’università sapendo stare davanti alla realtà senza farsi manipolare, e potendo dire: «Io sono nato per questo».
Poi sarà responsabilità sua mettersi in gioco o tradirsi, ma senza più l’alibi dell’ignoranza di sé e del mondo. Se oggi il diciassettenne Daniele che intuiva di essere nato per scrivere ha pubblicato un nuovo romanzo (Adelmo che voleva essere Settimo), è perché, pur avendo rischiato di tradirsi, è riuscito, grazie ad altri e alla scrittura, a rimanere fedele al suo destino.
Non è un caso che in quest’ultimo libro la salvezza di un padre (gli adulti) sia affidata a un figlio (le nuove generazioni) malato: non la retorica del nuovo che salva solo perché nuovo, ma il grido del reale che squarcia la realtà e ci chiama a una vita nuova. Sapremo ascoltarlo?

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