Donald Trump, o chiunque abbia scritto le 29 pagine dedicate alla Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti 2025, afferma che «l’Europa ha perso l’autostima» – oltre a una percentuale significativa del Prodotto globale dal 1990 – e che se «i partiti patriottici» non prenderanno il sopravvento nei vari Stati membri «il continente sarà irriconoscibile entro i prossimi vent’anni». Le istituzioni dei 27 hanno risposto guardinghe, almeno nelle prime ore post divulgazione del documento. Ma la sensazione è che sotto, alla base, cioè tra noi, covi una sana furia identitaria verso l’alleato – o ex alleato – atlantico. Davvero si è erosa l’autostima? E tra vent’anni saremo «irriconoscibili» perché peggiori o potremmo essere riconoscibili ma, certo, «altro» rispetto ad ora, magari in positivo?
Per rispondere incrociando emozioni e (sempre) razionalità, ho chiesto ad alcuni colleghi qui al Corriere, appartenenti a generazioni e redazioni diverse, di indicarmi due nomi di persone/personaggi che rappresentino al meglio l’identità europea. L’idea era semplice: individuare linee di convergenza, pur nell’assoluta libertà delle scelte, e cercare di capire se esista un patriottismo allargato, non sovranista quindi, ma nient’affatto debole. Se cioè – in ogni luogo dove viviamo e lavoriamo – siamo ancora lì (o no) a “costruire” un’appartenenza culturale complessa, cangiante e proprio per questo più potente di modelli statici. Una patria delle storie e delle idee.
Le risposte sono piovute – scrosciate – nella mia mail. Contando le citazioni, hanno “vinto” il padre-fondatore Altiero Spinelli («Ha immaginato l’Europa mentre il nazismo sembrava vincere, l’orizzonte possibile nell’ora impossibile») e la cantautrice Dua Lipa («Londinese di origini kosovaro-albanesi, non nasconde le sue radici e attesta così l’emancipazione culturale dei nuovi europei»). Sul podio, parimerito, i Beatles e Beethoven.
La sequenza delle coppie è commovente. Nel senso che “muove” qualcosa che chiede di essere condiviso. Ada Lovelace e Tim Berners-Lee, «perché hanno inventato il digitale, prima che diventasse un business». Nietzsche e Bono degli U2, «perché hanno trasceso i rispettivi nazionalismi, tedesco e irlandese, per sciogliersi nell’afflato europeo». Shakespeare e Rosalia, il bardo inglese e la stella spagnola della musica, «perché accendono e riaccendono il nostro immaginario poetico». Hannah Arendt ed Elton John, lei «ha dato lezioni di rigore intellettuale, anche all’America, contro i totalitarismi» e lui «ha dato una coscienza civile al pop». E poi «Sergio Mattarella e David Bowie, per la coerenza». François Truffaut ed Elena Ferrante che «hanno reso universali storie individuali». Benedetto, «santo d’Europa che ci ha insegnato a camminare attraverso il Continente», e Mozart, «che ha innestato una vena di ottimismo nella nostra cultura». E poi Coco Chanel e Giorgio Armani; Picasso e Chagall; Churchill e Havel; Mazzini e Zweig; Musil e Camus; Bobbio e Bauman; la ragazza coraggiosa Sophie Scholl e il coraggioso «whatever» di Mario Draghi; Anne Frank e Maria Montessori; Emma Bonino e Daniel Cohn-Bendit, europei in purezza.
La lista potrebbe continuare e arricchirsi in ogni ufficio, scuola, casa: riverbera i nostri studi, le nostre passioni, i libri che abbiamo letto e i concerti dove abbiamo pianto. Potremo mai restare spossessati, senza autostima? Forse mai, tuttavia è tempo di trasformare la vulnerabilità in consapevolezza combattente. Tra le più votate c’è stata anche Sofia Corradi, pedagogista, inventrice dei programmi Erasmus. Perché chiunque abbia fatto esperienza diretta di Europa, negli anni della formazione, non potrà che sentirsi chiamato a difenderla. Whatever it takes.
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