Marx e lo sfruttamento dei lavoratori: ingiustizia evitabile o errore di sistema?, di Vittorio Pelligra

La questione della giustizia nel pensiero marxiano rappresenta un vero paradosso. Da una parte, infatti, Marx sposa un concetto di giustizia puramente giuridico, equivalente, cioè, al rispetto delle norme generalmente accettate. D’altro canto, però, sembra considerare il sistema capitalistico che si fonda su quelle stesse norme così negativamente da volerlo sovvertire e questo nonostante, nell’ambito del suo ordinamento giuridico, esso non possa essere considerato ingiusto. I capitalisti, infatti, si comportano secondo le regole quando acquistano la forza-lavoro e i lavoratori non possono affermare di essere trattati ingiustamente visto che accettano le condizioni contrattuali in modo libero e volontario attraverso la sottoscrizione di un contratto che stabilisce una retribuzione in linea con il valore del loro lavoro. Eppure, nonostante questa formale coerenza con il quadro normativo che porta Marx a ritenere il sistema capitalistico giusto, almeno nell’accezione della giustizia formale, la proprietà privata dei mezzi di produzione, l’essenza stessa del capitalismo, viene condannata fermamente come causa di sfruttamento.
«Tutti cannibali»
Alla base di questo paradosso – se apparente o sostanziale, lo vedremo più avanti – si trova uno dei problemi cruciali che la teoria marxiana intende chiarire: com’è possibile che in un sistema “formalmente giusto” come quello capitalistico, anche in assenza di distorsioni del mercato, oligopoli o monopoli, si generi dominio e sfruttamento e non solo lo sfruttamento dei capitalisti nei confronti dei lavoratori, ma anche quello dei proprietari terrieri e dei prestatori di denaro i quali estraggono dai capitalisti, sotto forma di rendita e interesse, parte del profitto. Un sistema “giusto” nel quale, però, come scrive John Rawls, anche “gli sfruttatori vengono a loro volta sfruttati” e sono, in fondo, “Tutti cannibali!” per citare il titolo del libro di Claude Lévi Strauss.
Il quadro della “società di classe”
Il quadro nel quale l’analisi di Marx si sviluppa è quello della cosiddetta “società di classe”, una società nella quale l’assetto giuridico consente ad una categoria di soggetti di appropriarsi di parte del valore prodotto dai lavoratori. La società feudale rappresenta un esempio lampante di tale divisione in classi così come la società schiavista nella quale il lavoro dello schiavo e del servo appartengono per legge al padrone o al signore. Ma a differenza di queste società nelle quali l’ordinamento giuridico viene imposto con la forza, i rapporti di sfruttamento sono palesi e manifesti e gli schiavi e i servi sono consapevoli della loro condizione di soggezione, nel sistema capitalistico l’appropriazione da parte dei proprietari dei mezzi di produzione del valore prodotto dai lavoratori avviene in maniera occulta. Un sistema, quello capitalistico, che da una parte riconosce la libertà dei lavoratori e la volontarietà dei contratti che sanciscono il loro rapporti coi datori di lavoro ma che dall’altra si fonda sullo sfruttamento. È la presenza celata di questo sfruttamento il “mistero” che Marx vuole svelare con la sua teoria del valore-lavoro, primo grimaldello della più ampia critica al sistema capitalistico nel suo complesso.
L’eccedenza invisibile del lavoro
Il punto d’avvio di questa teoria è la constatazione della natura particolare del lavoro: benché la forza-lavoro venga trattata alla stregua degli altri fattori della produzione, infatti, materie prime e capitale, esso differisce dagli altri perché è l’unico che produce più valore di quanto non ne richieda per la sua rigenerazione. Mentre i mezzi di produzione nelle mani dei capitalisti trasferiscono interamente il loro valore nelle merci che contribuiscono a realizzare, l’azione dei lavoratori trasferisce più valore di quanto essi non ne “consumino” sotto forma di “beni di salario”; di quelle merci, cioè, che vengono acquistate dai lavoratori per il loro sostentamento. Ma questa eccedenza è invisibile. I lavoratori, infatti, non riescono a determinare quanta parte del valore che contribuiscono a produrre gli ritorni sotto forma di salario e quanto, invece, rimanga nelle mani del capitalista sotto forma di “pluslavoro”, lavoro cioè eseguito ma non retribuito.
La distinzione tra “forza lavoro” e “lavoro”
Per comprendere meglio questo punto è necessario chiarire la distinzione che Marx introduce tra il concetto di “forza-lavoro” e quello di “lavoro”. Una distinzione che non troviamo negli altri economisti classici, Smith e Riccardo, al cui pensiero Marx si rifà per quanto riguarda le premesse della sua teoria del valore. Con l’espressione “forza-lavoro” si indicano tutte le capacità fisiche e intellettuali possedute dal lavoratore e potenzialmente utilizzabili nell’ambito del processo produttivo. Con “lavoro”, invece, Marx indica l’attività effettivamente compiuta nel processo di produzione delle merci. Alla luce di questa distinzione si capisce perché la “forza-lavoro”, ciò che il capitalista acquista dal lavoratore, non può essere considerata una merce qualunque, alla stregua degli altri fattori della produzione. La forza-lavoro, infatti, è l’unica merce dalla quale è possibile ottenere il cosiddetto “lavoro vivo” che nella teoria classica e anche in quella marxiana è la vera fonte del valore.
“Lavoro morto” e “lavoro vivo”
Una seconda assunzione importante della teoria del lavoro-valore riguarda la diversità che capitalisti e lavoratori esprimono rispetto ai loro interessi fondamentali. I capitalisti posseggono i capitali che investono nei mezzi della produzione, macchinari e materie prime; questi costituiscono il cosiddetto “lavoro morto” come lo definisce Marx, perché sono il frutto dal lavoro passato. I lavoratori, invece, posseggono la loro forza-lavoro, o “lavoro vivo”, che vendono in cambio di merci per un valore che è uguale al costo di riproduzione della “forza-lavoro”, vale a dire un salario di pura sussistenza. Il “lavoro morto” viene combinato dai capitalisti con il “lavoro vivo” per ottenere nuovo capitale.
È facile capire che la misura del nuovo capitale così ottenuto deve necessariamente essere superiore a quello investito inizialmente altrimenti i capitalisti non avrebbero nessun interesse ad anticipare il capitale per attivare il processo produttivo. Ciò significa anche che mentre i lavoratori lavorano per consumare i cosiddetti “beni salario”, appena necessari per sopravvivere, i capitalisti lavorano per trarre profitto e accumulare capitale. Una conseguenza importante di questa differenza sostanziale tra capitalisti da lavoratori è che, in questo schema, gli unici a poter risparmiare e a poter investire sono i capitalisti. Questa costituisce un’ulteriore ragione del loro grande potere non solo economico ma anche sociale. Al contrario il risparmio dei lavoratori è solo un mancato consumo presente attraverso il quale ci si può garantire un maggiore consumo nel futuro.
Possiamo a questo punto descrivere la dinamica economica come l’incontro tra il processo di conversione delle merci in denaro che definisce i capitalisti e quello di conversione del lavoro in denaro e di questo in merci che, invece, caratterizza la vita dei lavoratori. Qui emerge un altro punto cruciale nel discorso di Marx.
Il quadro giuridico del capitalismo
L’incontro dei due movimenti merci-denaro dei capitalisti e lavoro-denaro-merci dei lavoratori è ciò che formalmente stabilisce il quadro giuridico del capitalismo, nel quale lo sfruttamento c’è ma non appare esplicitamente. Ma se modifichiamo la prospettiva descrivendo il ciclo del capitalista come il passaggio dal denaro al denaro attraverso la vendita di merci si comprende meglio il fine ultimo del sistema produttivo: la quantità di denaro che emerge alla fine del ciclo dev’essere per forza maggiore di quella che gli aveva dato inizio. Ecco, dunque, che appare ora in maniera esplicita l’obiettivo della pura accumulazione come fine ultimo del capitalista. Questo mutamento di prospettiva ci aiuta a comprendere, esplicitandolo, il ruolo chiave che il lavoro gioca in questo processo. Se il capitalista, infatti, pagasse tutti i fattori della produzione a loro valore reale potrebbe ricavare dalla vendita delle merci esclusivamente il valore del capitale originariamente investito.
Plusvalore e profitto
Per accumulare il capitale, per ottenerne, cioè, in quantità maggiore di quella investita, occorre remunerare i fattori della produzione in misura minore rispetto al valore che essi producono. Ma questo è impossibile per tutti i fattori della produzione tranne uno: la “forza-lavoro”. Questa viene infatti remunerata meno del suo valore perché una parte eccedente, il “plus-lavoro”, può non essere retribuita e il valore che essa produce, il “plus-valore”, può rimanere nella disponibilità dei capitalisti. I lavoratori nell’ambito di un contratto di lavoro regolare accettano volontariamente tale condizione perché non possiedono i mezzi di produzione e quindi non possono fare altrimenti per procurarsi di che vivere. Ecco che la società di classe, dove solo alcuni possiedono tali mezzi, pur essendo regolata da un corpus giuridico formalmente giusto, produce comunque sfruttamento senza, per giunta, che i lavoratori ne siano pienamente consapevoli. Non si rendono conto che il sistema è sì formalmente giusto ma anche così perverso che per poter lavorare essi devono pagare attraverso una quota del loro lavoro, i capitalisti, chi presta loro il denaro e chi si arricchisce con la rendita per il solo fatto di possedere la terra. Senza questo genere di sfruttamento, dunque, non potrebbe esserci plusvalore e quindi neanche profitto.

Il paradosso: capitalismo sistema giusto ma da sovvertire
Inizia a chiarirsi in questo modo il senso del paradosso di cui abbiamo detto in apertura. Come sia possibile, cioè, che Marx ritenga il capitalismo un sistema giusto – si ricordi la sua critica alle rivendicazioni presenti nel “Programma di Gotha” – e al contempo, lo voglia sostituire in blocco con un sistema economico e sociale nel quale la proprietà dei mezzi di produzione non sia più monopolio di una sola classe di cittadini.
In altri termini, come scrive Rawls nelle sue Lezioni di storia della filosofia politica “Egli vuole portare alla luce del sole – rendere chiara a tutti – la maniera nella quale l’ordine capitalista, anche quando è pienamente concorrenziale, e anche quando soddisfa appieno la concezione di giustizia più adeguata ad esso, è ancora un sistema sociale ingiusto di sopraffazione e sfruttamento (…) Marx intende dire – conclude Rawls – che anche un sistema capitalistico perfettamente giusto, secondo i propri principi e la concezione della giustizia ad esso più adeguata, rimane comunque un sistema di sfruttamento”.
Su quale base lo sfruttamento dei lavoratori è ingiusto?
Sembra che il paradosso, con tutta la sua ambiguità di fondo, sia finalmente risolto. Rimane ancora da chiarire, però, un’altra questione centrale: su che basi possiamo affermare che lo sfruttamento dei lavoratori è ingiusto? La cosa sembra banale ma non lo è. Marx, infatti, oltre ad accettare una visione puramente giuridica della giustizia, che quindi è inutile a questo scopo, allo stesso tempo rifugge da qualunque principio etico assoluto, che sarebbe utile per valutare gli esiti del sistema capitalistico al di fuori della cornice del rispetto del suo corpus giuridico. A complicare ulteriormente le cose c’è poi il fatto che lo sfruttamento, almeno come lo definisce il filosofo – il rapporto tra lavoro eccedente e il lavoro necessario – non emerge come conseguenza di una qualche violazione della legge del valore, ma deriva, al contrario, dal suo normale funzionamento.
Il rapporto tra libertà negativa e libertà positiva
In questo la concezione marxiana dello sfruttamento è “scientifica”, scevra cioè, da ogni connotazione etica o morale. Come si fa dunque a considerare ingiusto il sistema capitalistico se non si può condannare come ingiusto neanche lo sfruttamento dei lavoratori, che rappresenta il suo esito più tragico? Analizzeremo più avanti la risposta elaborata da Marx. Notiamo qui, per ora, che tale quesito rimanda indirettamente ad un dibattito che avrà luogo molti anni dopo: quello incentrato sul rapporto tra libertà negativa e libertà positiva.
Vediamo già nella critica marxiana come il concetto di libertà negativa, l’assenza di coercizione nei confronti dei lavoratori, non è sufficiente a garantire il loro benessere e le condizioni per il loro sviluppo. Se è vero, infatti, che questi sono liberi di non accettare il contratto che gli propone il datore di lavoro – Marx parla di “condizioni di indipendenza” – è altrettanto vero che in assenza di mezzi di produzione tale libertà viene svuotata di significato. In assenza dei mezzi di produzione, infatti, il lavoratore non sarà in grado di garantirsi la sussistenza in maniera autonoma attraverso il suo solo lavoro. Ecco, perché, c’è chi ritiene che lo sviluppo umano sia necessariamente legato ad una visione positiva di libertà; una visione per la quale i cittadini sono attivamente posti nelle condizioni di trasformare, nel linguaggio di Amartya Sen, le loro “capacità” in “funzionamenti”, le loro potenzialità in concrete realtà. È solo attraverso l’accesso libero ai mezzi di produzione che, tornando alla prospettiva marxiana, il lavoratore potrà realizzare appieno la sua “forza-lavoro” ed emanciparsi dalla condizione di sfruttamento alla quale il sistema capitalistico inesorabilmente lo condanna.
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