Lo spettro dell’astensione e la democrazia radicale, di Marco Patruno

In Italia c’è un problema fondamentale di democrazia e rappresentanza. Sempre di più queste parole, che scontano interpretazioni varie e contraddittorie, hanno subito un lento quanto costante disaccoppiamento dalla realtà. Oggi più che mai sono aspirazioni che vivono nei migliori propositi di sincera «manodopera politica» – militanti, volontari – ma non nelle strategie e nelle teste delle classi dirigenti, di ogni forma e colore.
La democrazia sembra aver ultimato una trasformazione che passa da un cambiamento fondamentale quanto poco rilevato: in Italia questa è animata da una forma di suffragio che – nei fatti – non è più universale, bensì censitario. L’affluenza sembra seguire sempre più i livelli di reddito, in maniera proporzionale, con una vera e propria fuga dalle urne dei ceti meno abbienti. Sono sempre più frequenti infatti votazioniin Calabria e Toscana i casi più recenti – dove chi non vota è la maggioranza assoluta. La pratica del voto, fondamentale ma non l’unica esistente in una concezione di piena democrazia, ha finito per cannibalizzare ogni altro aspetto della vita politica. E sembra essere infatti l’unico aspetto attivamente coltivato da leadership partitiche che hanno sostituito le basi sociali con gli spin doctor. Un cambiamento radicale, che unito a decenni di egemonia neoliberale anti-popolare, ha tagliato fuori fasce sempre più ampie della popolazione che provano a esprimere la loro disaffezione da questo sistema politico che li esclude, proprio rifiutando l’unico atto che sembra essere importante: il voto.
Il trend che – a parte puntuali eccezioni – vede l’affluenza alle urne in costante diminuzione racconta della volontà di non legittimare un sistema che negli ultimi anni non solo non ha fatto nulla per migliorare la condizione delle classi popolari, ma le ha peggiorate. Laddove alla destra di queste fasce di popolazione non è mai interessato nulla, agendo da sempre come braccio «armato» dei grandi accaparratori delle classi padronali, la corsa al centro della sinistra ha appiattito anche i loro programmi su piattaforme economiche che hanno alimentato la «redistribuzione al contrario» che in questi anni ha visto larghissima parte di reddito muoversi dal basso verso l’alto, con una crescente concentrazione di ricchezza e patrimonio. Come attestano i dati di Banca d’Italia che descrivono un paese dove il 5% più ricco detiene il 46% della ricchezza, mentre la metà più povera della popolazione italiana detiene l’8% della ricchezza netta totale. Uno squilibrio inaccettabile ma che è stato permesso dalla classe politica, almeno da tutte quelle che si sono succedute nell’arco parlamentare dagli anni Ottanta in poi.
La reazione di larga parte della classe politica ai dati dell’astensionismo può avere molte forme, ma la più comune assomiglia a quella di Roberto Vannacci che ha commentato sul suo profilo facebook il risultato delle elezioni regionali in Toscana scrivendo: «Chi non ha votato, quindi un toscano su due, non si lamenti perchè se non desideri partecipare poi non hai alcun diritto di pretendere». Una reazione che qui si presenta in una forma livorosa, dettata anche dal pessimo risultato ottenuto dalla Lega, ma che si ripete in modi più sottili anche nei ranghi della sinistra liberal, pur politicamente agli antipodi rispetto al Generale approdato alla Lega. 
Una convergenza tra opposti che deve allarmarci circa uno strisciante pregiudizio verso chi non vota. Solitamente un miscuglio di classismo, educazionismo e diffidenza nei confronti delle capacità di giudizio di certe persone portatrici potenzialmente di tre colpe: bassa educazione, residenza in un quartiere periferico o destinatarie di misure di welfare. Caratteristiche che si possono presentare insieme, da sole o in combinazione. Ci sono sempre più studi che mettono in evidenza una cosa molto semplice: se su una mappa si sovrappongono le zone con minori servizi e quelle con maggiore astensionismo queste praticamente coincidono. Una coincidenza che mostra una cosa molto chiara: la democrazia ha smarrito la sua funzione fondamentale. Quella che è dichiarata nell’articolo 3 della Costituzione: «rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza, impedendo il pieno sviluppo della persona e la partecipazione di tutti alla vita del Paese».
Perché una persona costantemente tradita da un sistema che gli è stato presentato come portatore di equità deve alimentarlo con il proprio voto, dopo che la sua condizione non solo non è migliorata, ma peggiorata? Magari c’è gente che ha votato una, due, tre anche quattro volte sperando in un cambio di marcia, fidandosi delle promesse di questo o quel politico che di volta in volta catturava la sua attenzione e poi all’ennesima delusione ha smesso di farlo. Una delle obiezioni più comuni del pregiudizio «astensionista» è quello che fa riferimento a una responsabilità dell’elettore, ma cosa ha fatto la politica per responsabilizzare l’elettorato? Non credo a un concorso di colpa tra eletti ed elettori, nel momento in cui i partiti sono stati consapevolmente svuotati della loro funzione originaria: essere cinghia di trasmissione politica tra alto e basso, favorire un’osmosi tra base e dirigenza. Non si tratta di rimpiangere le vecchie forme del partito, che erano isomorfe alla società di massa e pertanto anacronistiche oggi, bensì trovare un nuovo modo per diffondere una coscienza politica che inquadri quella pre-politica, in alcuni casi anche di classe, che le persone hanno molto a fuoco, differentemente da ciò che si crede. Un’opera di ricongiungimento delle cause e degli effetti, del particolare e del generale contraria all’atomizzazione a cui anche la politica – su spinta della sfera economica – ha ceduto. Una riflessione urgente vista la grande domanda politica che si è manifestata e unita nelle mobilitazioni contro il genocidio, per la causa palestinese. Un movimento ampio e plurale che sta incontrando un livello di repressione tale da smascherare il nervosismo di chi ha ritagliato per sé una comoda rendita politica dalla divisione tra oppressi.
La democrazia ricomincia a funzionare se torna a essere lo strumento della giustizia sociale, se è radicale nei fini e negli strumenti. Solo così la gente si riavvicinerà a essa, tornerà ad occupare i suoi spazi. Per scongiurare il mondo futuro immaginato da Trump, Meloni e dagli oligarchi mondiali, che ridono sulle macerie di un genocidio.

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