Stavolta il Pd è stato più lesto. Dopo che Giuseppe Conte aveva annunciato di voler portare in piazza il M5S per protestare contro il ridimensionamento del Reddito di cittadinanza, Enrico Letta ha prontamente indetto una manifestazione il 17 dicembre, un sabato che precede il Natale. Letta eviterà così di dover sfilare da ospite poco gradito in un corteo convocato da altri, come accadde per l’adunata pacifista del 5 novembre. Bel colpo.
Ma è curioso che il più consistente partito della sinistra — in uno stato di salute migliore di quanto attesti l’autopercezione — sia costretto a ricorrere ad un tal genere di espedienti. L’esistenza alla propria sinistra, di un movimento in espansione e corroborato da una quinta colonna interna allo stesso Pd, sta provocando nel maggior partito dell’opposizione una sorta di smarrimento. Smarrimento che rischia di produrre danni d’immagine di cui il gruppo dirigente non sembra rendersi conto. Un farraginoso, incomprensibile ed estenuante dibattito congressuale ha fatto sì che, a due mesi dal 25 settembre, nessuno si sia sentito in dovere di esaminare compiutamente un risultato elettorale non dissimile da quello del 2018.
All’epoca, l’allarme fu grande, furono fatti approfondimenti che sconfinavano nel secolo scorso proiettandosi su quello futuro e venne immediatamente rimosso il segretario in carica. Adesso niente di tutto questo. Il partito galleggia in uno stato di sospensione verso un esito scontato: si dovrà optare tra Elly Schlein e Stefano Bonaccini o altri due altri candidati destinati, come la Schlein e Bonaccini, a rappresentare l’ala «di sinistra» e quella «riformista». Poi il prescelto manifesterà l’intenzione di dar voce anche ai perdenti, terrà aperte davanti a sé varie strade e a quel punto il Pd forse rientrerà in gioco. Peccato che quel partito abbia lasciato scivolar via cinque o sei mesi e nel frattempo si saranno tenute le elezioni nel Lazio o in Lombardia del cui esito porteranno la responsabilità solo i «territori» che nel loro linguaggio sta per i gruppi dirigenti locali.
In ogni caso, alla fine di questo lungo viaggio il Pd farebbe bene a fare quello che non fa da anni: una scelta. Netta, per una volta. Certo una scelta comporta la rinuncia alle comode scappatoie come quella di ieri al Parlamento europeo dove, sulla risoluzione che definiva la Russia uno Stato «sponsor del terrorismo», il Pd è stato l’unico partito del continente a dividersi in tre tronconi: favorevoli, contrari, astenuti. Talvolta però è importante sacrificarsi, fare delle rinunce.
Ciò che è accaduto nel Parlamento europeo ci ricorda che nel Pd resta forte la tentazione di riallacciare un rapporto organico con i Cinque Stelle. Quell’alleanza piovutagli addosso nella travagliata estate del 2019 con la quale, dopo essersi «sacrificati» per quattro anni al governo, non hanno ancora fatto i conti fino in fondo. Li facciano adesso questi conti e, stipulato con Conte un patto affidabile, avranno — se lo vorranno — il tempo per guardare successivamente al terzo polo. E — anche qui, se lo ritengono utile — contrattare con esso, assieme a Conte beninteso, una seconda, ulteriore, alleanza.
Ovviamente potrebbero fare una scelta analoga a parti invertite (prima la tessitura di un rapporto con i calendiani, poi, in un secondo tempo, con i seguaci di Conte). Ma questa seconda opzione appare meno praticabile per la ben nota difficoltà ereditata dal Pci a tollerare nemici a sinistra. E per la pregiudiziale antirenziana che nel Pd sembra avere una portata analoga all’idiosincrasia comunista nei confronti di Bettino Craxi. Idiosincrasia che rese assai problematico ogni dialogo a sinistra lungo gli Ottanta e nei primi anni Novanta.
Siamo ben consapevoli, nel suggerire questa strategia dei due tempi, che i dirigenti del Pd risponderanno nei modi di sempre: perché mai dovremmo scegliere quando possiamo tenere socchiuse entrambe le porte? La risposta è che stavolta, non avendo in prospettiva lo sbocco di un governo d’emergenza (già ampiamente consumata nel decennio passato), i democratici finirebbero risucchiati nel gorgo di furbizie e tatticismi che regolarmente rischia di inghiottire i partiti di opposizione. Un gorgo di demagogia dove si «combatte la povertà» con richieste di scostamenti di bilancio. Un vortice nel quale si è indotti a proporre riforme inspiegabilmente non realizzate all’epoca in cui si aveva in Parlamento la maggioranza. Un mulinello che ben conosciamo, capace di travolgere coraggiose prese di posizione nel campo della politica internazionale. E perfino termovalorizzatori.
Un patto con il partito alla propria sinistra è meglio dell’indeterminatezza e delle non scelte. Un patto beninteso nel quale il Pd (si spera) provi a salvare qualcosa del patrimonio accumulato nell’ultimo decennio, quello della cosiddetta «agenda Draghi» nel cui nome il partito di Letta si è battuto alle ultime elezioni. Così da marzo in poi — ammesso che Conte dica loro di sì — Pd e M5S potranno convocare le manifestazioni assieme. E al Parlamento europeo si esprimeranno (come — a dire il vero — già fanno i Cinque Stelle) con un unico voto. Sarebbe un buon inizio. Quantomeno l’inizio di qualcosa.
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