Sono le ultime righe di Dopo la virtù (1981), il libro più celebre di Alasdair MacIntyre: “Stiamo aspettando non Godot, ma un altro San Benedetto, che ci aiuti a costruire forme di vita con le quali sopravvivere ai tempi bui che stanno per arrivare”. Il paragone con la fine dell’Impero romano presentava però una differenza: “Non ci sono barbari che ci aspettino al di là delle nostre frontiere, perché i barbari ci stanno già governando da un bel po’ di tempo”.
Già queste citazioni ci fanno capire perché il pensiero del filosofo nato scozzese-americano, scomparso recentemente a 96 anni, viene ora ridiscusso e riscoperto. La crisi del liberalismo era per lui un fenomeno evidente e grandioso, perché le vecchie forme istituzionali sopravvivevano svuotate del loro ethos originario, perché usiamo parole come “diritti” e “giustizia”, totalmente separate da una narrazione storica coerente e condivisa. Abbiamo perso per strada il senso di un percorso comune: il telos. E noi oggi abbiamo di fronte società frammentate e polarizzate, e una vita pubblica che si riaggrega, quando lo fa, intorno al rancore. Il senso di solidarietà proprio dei gruppi e delle organizzazioni collettive si è disperso sotto la pressione di una razionalità astratta che ha liberato gli individui pensando di poter fare a meno di uno scopo comune e di una ben marcata visione del bene e della virtù. Visione che viene abbandonata, diceva MacIntyre, nel nome di un liberalismo, secondo lui male inteso, che ha da essere neutro, per non compromettere la libera scelta degli individui.
Dopo i decenni passati da allora, si può ben dire che il suo pensiero si prende qualche rivincita postuma. O forse meglio: non è mai uscito dalla partita. La discussione tra l’individualismo universalista e il comunitarismo attraversa i secoli, da Hobbes, Locke e Spinoza fino a Kant (con i primi) a Platone, Thomas More e tanti altri (con i secondi), ma ha avuto la sua moderna stagione filosofica nel secolo scorso. Innescata proprio dal radicale attacco di MacIntyre a John Rawls e al suo saggio del 1971, Una teoria della giustizia. Non è mai finita, ha attraversato la lunga onda neoliberale iniziata negli anni Ottanta e si ripropone oggi in posizioni di forza: nella sociologia i seguaci di Émile Durkheim, Robert Bellah o Robert D. Putnam e nella filosofia politica Charles Taylor, Michael Sandel, il più moderato e “mediano” Michael Walzer, cui si aggiungono oggi più giovani figure che si definiscono “postliberali”, come John Milbank o Adrian Pabst. Tutti alla ricerca di fattori coesivi civici, un tempo forniti dalla religione o da tradizioni politiche forti come quella socialista.
La proposta di MacIntyre non è conservatrice o nostalgica, si propone di costruire forme di vita, in cui la virtù possa fiorire, in cui la democrazia deliberativa possa funzionare attraverso il confronto nel rispetto di un terreno comune. Non è possibile secondo lui edificare e mantenere una società giusta soltanto attraverso un contratto che definisca le regole, non è possibile senza istituzioni che incarnino e trasmettano una idea del bene comune. E si capisce quanto sia complicato far convivere esigenze che contrastano con il primato dell’autonomia individuale e con l’astensionismo etico di una rigorosa secolarizzazione.
La società giusta per i rawlsiani è quella che stipula un contratto tra tutti i suoi membri, tenuti “sotto il velo di ignoranza” dei ranghi sociali nei quali capiterà loro di vivere; per i seguaci di MacIntyre, invece, è giusta al contrario la società nella quale i membri appaiano con tutti i colori delle loro convinzioni morali, con i connotati delle loro famiglie e paesi. Non è possibile avere società giuste senza persone virtuose, senza scuole che queste virtù le insegnino e che insegnino ad esercitare la discussione democratica, e senza comunità che le difendano condividendo un fine comune. Si capisce bene come la critica comunitaria morda ferocemente i vizi delle democrazie liberali contemporanee, ma anche altrettanto bene quanto siano chiare le contraddizioni che presenta per la mentalità e le istituzioni liberali, per le quali il limite della libertà di ciascuno è la libertà degli altri. Che succede quando si parla di aborto? O di libertà sessuale? Chi decide che cosa è virtuoso? MacIntyre non ignorava queste obiezioni elementari perché era communitarian e cattolico (convertito dal protestantesimo) sì, ma non integralista, e dunque voleva che il disaccordo si sviluppasse in tutti i possibili modi nella vita pubblica attraverso civili e virtuose discussioni e sosteneva riforme dell’università che programmaticamente “costringessero” al disaccordo, impegnando i docenti a promuovere il confronto tra visioni rivali, tanto più nel campo dell’etica per la quale rifiutava che fosse consegnata alla pura soggettività ed emotività. Essa doveva essere sottoposta all’analisi e discussione razionale come era avvenuto nella tradizione aristotelico-tomista.
