Nell’età dell’informatizzazione avanzata, la quotidianità ha subito un’accelerazione senza precedenti. Lo smartphone è divenuto, ortopedicamente, estensione del nostro braccio e succursale della nostra memoria. Viceversa, la nostra capacità di apprendere, non ha migliorato la sua performance di pari passo, tanto che, essa, non è in grado di assorbire tutti gli stimoli cui è sottoposta.
L’intelligenza umana si caratterizza per essere razionale, diversamente si è computer, intelligenza artificiale o machine learning. L’attributo della razionalità non è innato ma si acquisisce con l’esperienza, il bambino avvicina la mano al fuoco per poi comprenderne la pericolosità; questo significa che il sapere necessita della pazienza e del tempo per sedimentarsi e farsi patrimonio individuale. Anche la lingua lo dimostra. La parola leggere deriva dal latino lègere, a sua volta mutuato dal greco λέγω (lègo), raccogliere: quando si legge, ma lo si fa davvero, con fatica e pazienza, di fatto studiamo, apprendiamo, quindi, in ultima analisi, raccogliamo conoscenze. Alla stregua di un frutto che matura su un ramo così, grazie al tempo, l’essere umano impara.
Al contrario la tecnologia dell’automonitoraggio, ossia i big data, oppure l’intelligenza artificiale, sono sistemi fondati sull’apprendimento addizionale, non esperienziale. La prima accumula una grande quantità di informazioni per prevedere prima e incanalare dopo le nostre scelte di consumo; la seconda è capace di rielaborare in autonomia innumerevoli input per sviluppare, per esempio, un nuovo antibiotico. Nessuna di esse avrebbe potuto prevedere l’invasione russa dell’Ucraina. Si tratta di tecnologie completamente cieche di fronte allo sviluppo degli eventi; la storia e il futuro non sono determinati dalla probabilità statistica, ma dall’improbabile. Così, prima del 24 febbraio, le previsioni dei simulatori remavano a sfavore di Mosca, in particolare sull’opzione, poi selezionata, dell’invasione da terra: l’intelligenza artificiale fondandosi sull’accumulo e rielaborazione dei dati non tiene conto – almeno per il momento – che l’essere umano non solo apprende con lentezza ma può comportarsi in modo assolutamente irragionevole, agendo in senso contrario a quel che le possibilità gli suggeriscono. Così Putin, in qualche modo, ha giocato le avanguardie della tecnologia digitale, dimostrando che non esiste una forma mentis universale e standardizzata ma che piuttosto questa si frammenta seguendo diversi schemi culturali.
La grande accelerazione dell’informatica e la sua influenza sulla vita quotidiana si è evidenziata dagli anni Novanta, allorquando la geopolitica ha trovato la sua (ri)nascita: finito l’ordinato mondo bipolare c’era la necessita di spiegare la nuova complessità delle relazioni internazionali per mezzo di strumenti interpretativi nuovi. Curiosamente, l’analista di geopolitica sembra in effetti non poter fare a meno della rete per ottenere documenti, news e aggiornamenti, ogni ora, ogni minuto, riguardo a una qualsiasi area del mondo; così, nella sua inesausta corsa all’aggiornamento, egli si fa alfiere di quel «capitalismo delle emozioni» che crea mercato grazie agli stimoli a cui volontariamente si sottopongono gli utenti dei social e di internet. In questi termini chiarisce il concetto il filosofo Byung-Chul Han. «Il regime neoliberale ricorre alle emozioni come risorse per realizzare maggiore produttività e prestazione. Da un certo livello di produzione, la razionalità – che rappresenta il medium della società disciplinare [foucaultiana] – si scontra con i propri limiti. Essa è avvertita come costrizione, come impedimento; all’improvviso diventa rigida e inflessibile. Al suo posto subentra ora l’emotività, che si accompagna al sentimento di libertà, al libero sviluppo della persona. […] La razionalità è contraddistinta da oggettività, universalità e anche persistenza; così come essa si oppone all’emotività, che è soggettiva, situazionale e volatile. Le emozioni emergono soprattutto dal mutamento […] la razionalità, invece, si accompagna a durata, costanza e razionalità.»
Ma se l’analisi geopolitica, sempre sottoposta agli stimoli del mutamento, si dimostra il modello di pensiero che meglio si sposa con la stagione economica odierna – difficilmente inscrivibile sui binari dello sviluppo prevedibile -, come, questa, può confrontarsi con la storia come disciplina, la quale conquistò la sua autonomia epistemologica dopo secoli di confronti con la letteratura? Di più: la geopolitica può essa stessa considerarsi disciplina con statuto epistemologico a sé oppure ricopre una posizione ancillare nei confronti della madre storia?
Nella disputa le maggiori difficoltà emergono quando le due materie sono sottoposte al vaglio metodologico. Lo storico cerca di comprendere il passato interpretandolo a partire da fonti d’archivio: i documenti sono la memoria del passato e sono pertanto imprescindibili ai fini di una corretta ricostruzione degli eventi che si desiderano approfondire. Lo storico, pertanto, interroga la fonte affinché questa chiarisca una vicenda i cui protagonisti sono scomparsi da secoli. Diversamente, l’analista geopolitico cerca di prevedere il futuro a fronte di una corretta interpretazione del presente. Le sue fonti sono per loro natura eterogenee, perfettamente in linea con l’inesauribile produzione di informazioni che la rete mette oggi a sua disposizione. In concreto si tratta di dati statistici, reportage e previsioni pubblicate dalle organizzazioni internazionali – di respiro mondiale o regionale -, di documenti prodotti a livello nazionale come il DEF nel caso del governo italiano, o delle previsioni contenute in fascicoli come Global Trends pubblicato dal National Intelligence Council (NIC) degli Stati Uniti. L’analista ascolta con attenzione i discorsi pronunciati dai capi di Stato, cercando di coglierne anche i messaggi impliciti o le sfumature verbali, utili per definire, certo per sommi capi, le mosse future di quell’attore internazionale. Allo stesso modo, la testimonianza diretta è ricercata con grande interesse dall’analista, che per questo non rinuncia allo strumento dell’intervista. Certo, le fonti imprescindibili utilizzate per stendere una previsione restano senza ombra di dubbio gli articoli pubblicati dalla stampa internazionale, in sinergia con una loro più che quotidiana consultazione.
D’altra parte, un’attenta lettura degli articoli proposti dalle riviste di geopolitica che attualmente sono edite in Italia, può rivelare una penuria di analisi veramente lungimiranti e predittive, in grado di sostenersi alla prova del tempo. Al contrario, si ritrovano perlopiù articoli che assomigliano ad una raccolta aneddotica di fatti, utili e curiosi per la contingenza, ma con una data di scadenza a brevissimo termine: a distanza di un mese sarebbe inutile riprenderli in mano perché lo stato delle cose sarà già mutato. Probabilmente questo non è il frutto del caso, piuttosto del metodo di lavoro proprio dell’analista. Egli fa largo uso – o abuso – di interviste e articoli, pertanto, concentrando i suoi sforzi sull’evoluzione quotidiana dei fenomeni studiati, amplifica molto la sua miopia riguardo al fatto esaminato (es. la guerra in Ucraina), il quale, per essere correttamente compreso, richiederebbe invece di essere interpretato post factum. Al contrario, la ricerca storica, se ben fatta, produce monografie con una interpretazione del passato tendenzialmente corretta e fruibile a distanza di anni (salvo ovviamente novità potenzialmente rinvenibili in nuovi scavi archivistici).
Se le previsioni geopolitiche spesso si dimostrano miopi – con l’attenzione rivolta alla raccolta certosina delle vicende, magari importanti sul momento, ma che il filtro della memoria tenderà ad oscurare in favore di ciò che veramente determinerà i caratteri di quello specifico evento -, allo stesso tempo esse potrebbero rivelarsi uno strumento di formidabile utilità non per l’oggi, ma piuttosto per lo storico che studierà quel fenomeno domani: saranno uno strumento in più a disposizione della storiografia.
Ecco che qui si apre il paradosso della geopolitica. Se escludiamo le rare analisi lungimiranti, si potrebbe affermare che i metodi operativi della geopolitica sono degli apparati indispensabili per la raccolta di aneddoti, più o meno determinanti, su un evento della contemporaneità che solo in futuro sarà riconosciuto come storico. Poiché la geopolitica ha fretta di descrivere dinamiche ancora in fieri, essa potrebbe essere accostata alla pratica antiquaria così come venne descritta da Arnaldo Momigliano in «Storia antica e antiquaria» (1950), ma per un fine rovesciato rispetto alla pratica originale. Ciò significa che se fino al XIX secolo gli antiquari ricercavano in scavi archeologici o in biblioteche oggetti come medaglie, incisioni su statue antiche e cammei ai fini di un esercizio prettamente classificatorio, allo stesso modo, ma per un obiettivo diverso, l’analista di geopolitica, oggi, raccoglie nel presente aneddoti, interviste e statistiche che solo di fronte alla prova del tempo potranno essere riconosciuti come determinanti (o meno) alla conclusione – e comprensione – di un evento ancora in corso.
Così per l’attuale conflitto in Ucraina possediamo articoli su: il numero di milizie e mercenari inviati da Mosca, l’attentato al ponte di Kerch, la fornitura a Kiev dei missili Himars da parte statunitense, analisi sulla combinazione fra controllo da parte russa delle centrali elettriche ucraine e arrivo dell’inverno come strumento di pressione… Ma quali di questi elementi saranno determinanti per la risoluzione del conflitto? Ad oggi non è dato sapere. Quel che resta – e non poco – è la funzione della geopolitica come deposito della memoria evenemenziale. Essa, raccogliendo tutte le informazioni che si sono manifestate e si manifesteranno in quel contesto, offrirà agli storici del futuro – che ricostruiranno quella vicenda – anche quelle informazioni che il filtro della memoria avrebbe eliminato in quanto poco determinanti per una summa del conflitto.
Pertanto, se da una parte la geopolitica riprende, più o meno consciamente, quella pratica classificatoria della ricerca antiquaria che la storia ha espulso dalla storiografia, dall’altra pare che la geopolitica, studiando la più stretta attualità delle dinamiche di politica internazionale, si avvicini moltissimo al nucleo primigenio degli studi storici. Essa sembra connettersi con un filo diretto al pensiero dei primi storici greci. Così, sostiene Momigliano: Ha più importanza il fatto che verso la fine del secolo V a.C. si tendeva a porre in due compartimenti separati la storia politica e la ricerca erudita del passato. Tucidide scrisse un tipo di storia che riguardava eventi del passato recentissimo più che le tradizioni del passato lontano o di nazioni lontane, s’interessava più della condotta individuale o collettiva che delle istituzioni religiose o politiche, e voleva servire al politico piuttosto che allo studioso.
Il fatto che eminenti storici della Grecia classica guardassero al «passato recentissimo», e considerassero «storia» gli eventi della diplomazia e le guerre, interessandosi pertanto alla storia politica, allinea, contrariamente a quanto si potrebbe evincere dal punto precedente, l’analisi geopolitica al concetto di storia come declinato alle origini. Difatti Momigliano, parlando del posto che la storiografia antica si riserva in quella moderna, scrive: Non dovremmo mai cessare di meravigliarci del fatto che, con tutti i cambiamenti avvenuti nelle tecniche militari e nelle pratiche diplomatiche, le battaglie e le relazioni internazionali venissero ancora descritte, nel secolo XIX, secondo i modelli classici. Laddove i contenuti ponevano esigenze assolutamente diverse, l’erudizione manteneva la continuità.
È interessante, infine, osservare come l’analisi del presente, propria dalla geopolitica, si avvicini al senso con il quale lo storico Erodoto utilizzò la parola autopsìa, letteralmente «vedere con i propri occhi», per narrare le Storie del mondo del suo tempo.
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