Non è solo folklore locale la bagarre scatenatasi in entrambi i poli alla vigilia delle prossime regionali. Segnala piuttosto due rilevanti patologie del nostro sistema.
La prima è l’anomala concentrazione di potere politico che si è accumulato nelle Regioni, pur in assenza di devolution o ulteriori gradi di autonomia. Non si spiegherebbe altrimenti come mai i leader indigeni possano resistere così tanto all’avvicendamento, anche quando sono in carica da quindici anni, come Zaia, o da dieci, come De Luca ed Emiliano. Numeri inconcepibili per un primo ministro: Berlusconi, che pure era Berlusconi, è stato a Palazzo Chigi per meno di otto anni, divisi in quattro governi. In Europa solo Helmut Kohl e Angela Merkel possono rivaleggiare in quanto a durata col governatore del Veneto, e solo la Thatcher con i «rais» di Campania e Puglia.
Non basta: i presidenti uscenti, e perfino quelli già da tempo usciti come Vendola, premono per restare comunque in Regione, presentando liste personali alle elezioni, facendosi eleggere o capitanando pattuglie di «propri» consiglieri in grado di «ricattare» il futuro governatore (è ciò che Decaro e Fico sanno di doversi aspettare da Emiliano e De Luca). E se da Roma, per toglierseli di mezzo, propongono loro incarichi alternativi, tipo parlamentare italiano/europeo, voltano la testa sdegnosi. Oggi forse nemmeno un ministro ha il potere di un presidente di Regione, figurarsi un qualsiasi schiaccia-bottoni di Montecitorio o di Bruxelles.
Non ambiscono ormai neanche più a carriere nazionali: prima Bassolino, poi Zaia e infine De Luca, hanno lasciato una carica di governo pur di tornare alla politica regionale. Seguendo lo storico esempio di Salvatore Lauricella, presidente del Psi e vice di Craxi, che negli anni ’80 si dimise da parlamentare per farsi eleggere in Sicilia: meglio primi in Gallia che secondi a Roma.
Cacicchi a vita, sembra essere il loro programma. A molto potere corrisponde infatti poca alternanza, e questa è la seconda anomalia. I sistemi politici regionali sono «bloccati». È rarissimo che l’incumbent, chi cioè detiene la maggioranza, venga battuto alle elezioni. Anzi, le opposizioni un po’ alla volta svaniscono, si frantumano e finiscono aspirate un pezzo alla volta dentro il sistema di potere.
Alle ultime elezioni Zaia è stato eletto con il 76,8% dei voti, De Luca con quasi il 70%: percentuali bulgare, che non si vedono in nessuna democrazia dell’alternanza. In Toscana non è molto importante chi candiderà il centrodestra, tanto non ha chance. In Puglia, dove pure conta un commissario europeo (Fitto) e tre potenti membri del governo (Mantovano, Gemmato e Sisto), perderebbe pure contro l’armocromista di Elly Schlein; in Veneto vincerebbe anche contro Madre Teresa di Calcutta. Roberto Occhiuto, dimettendosi e subito ricandidandosi in Calabria, sembra aspirare allo stesso status di «intoccabile», nonostante dovrà vedersela con l’inventore del reddito di cittadinanza, il pentastellato Tridico, che tanti voti portò al Mezzogiorno.
Non è in salute un sistema politico in cui il comportamento elettorale della gente è prevedibile o scontato, e l’opposizione è flebile o irrilevante. Potrà anche essere in parte merito della bravura di chi governa da tempo. Ma è buona massima ricordare che «se il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente» (Lord Acton). In fin dei conti la democrazia è un metodo inventato per assicurare il ricambio delle classi dirigenti. Se non cambiano mai, c’è qualcosa che non va.
Lo dimostra il fatto che i «pascià» semi-indipendenti che governano le Regioni non partecipano quasi per niente alla vita politica nazionale, se non per distinguersene o addirittura dileggiarla (De Luca è un maestro del genere). Il Pd governa da dieci anni le due maggiori regioni del Sud d’Italia e non ha prodotto alcuna politica o idea meridionalista (almeno Zaia e Fontana si sono inventati l’autonomia differenziata, finita non a caso male appena è approdata in Parlamento).
In cambio, la politica nazionale ha perso qualsiasi presa sui gruppi dirigenti locali. Si fanno «tavoli» a Roma per spartirsi i candidati ma Giorgia Meloni, che pure è la leader indiscussa del centrodestra, ha serie difficoltà a indicare un candidato «suo» e credibile per il Veneto, e rischia di dover accettare nomi «azzurri» in tutto il Mezzogiorno. Elly Schlein, fallito il tentativo di far fuori Giani in Toscana, non avrà in lizza neanche un esponente della propria corrente (a meno di non considerare tali i due pentastellati Fico e Tridico in Campania e Calabria): in Marche, Puglia e Toscana correranno tre «riformisti».
Le leader nazionali e i loro partiti non hanno una classe dirigente all’altezza sui territori. Così alla fine conteranno le vittorie elettorali come Emilio Fede faceva con le bandierine, solo per farle pesare in quanto test pre-politico. Sarà un tre a tre, un quattro a due, o un cinque a uno?
Non era per questo che, più di mezzo secolo fa, furono istituite le Regioni.
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