Le Nazioni Unite e il tramonto dell’ordine liberale, di Lorenzo Cerani

Come scriveva Oswald Spengler nel terzo paragrafo dell’introduzione al primo volume (del 1918) della sua opera maggiore – Il tramonto dell’Occidente -, occorre saper alzare lo sguardo dai dettagli di un’epoca presi dagli storici comuni meccanicamente, allineandoli in serie causali, per coglierne il senso profondo complessivo, decifrandone i simboli che ne esprimono la vita organica destinata inesorabilmente ad appassire. Al di là del suo storicismo radicale, la storia è ricca di segni dei tempi difficili da dimenticare, segnali lampanti del collasso prossimo venturo stampigliati nella memoria collettiva, avvisaglie di fratture sociopolitiche che minacciano di travolgere nella loro carica impetuosa l’umanità terrorizzata che li attende impotente al varco.
In questi giorni, da spettatori dell’UNGA (United Nations General Assembly), senza voler fare prediche da profeti di sventura abbiamo toccato con mano (con poche eccezioni) la marcescenza delle élite occidentali soffocate da alleanze obtorto collo agli States e incapacitate ad uno scatto di autonomia rispetto ai principali dossier sul tavolo; si è preso atto dell’ipocrisia del Nord globale rispetto alla mattanza sanguinaria israeliana; c’è stata la tragica conferma del ritorno delle ragioni della forza nell’agone internazionale in barba agli organi transnazionali e al diritto umanitario diventato lettera morta.
Il presidente degli Usa, reduce da settimane di fuoco con tensioni sociali rampanti che attraversano il suo paese erodendone la precaria pace sociale, si è preso la scena con una geremiade indirizzata agli alleati, spingendoli a rimettersi in riga e rilanciando alcuni pezzi forti della sua narrazione, altrettante batterie di proiettili della propria macchina di costruzione del consenso. Tra questi il rilancio del fossile contro le energie alternative in senso anticinese sul fronte della geopolitica dell’energia, la critica dell’immigrazionismo messa al centro dell’agenda politica dall’alt right come dal pensiero della destra europea, ad esempio, di un Guillame Faye che ne parlava come di un “sistema per uccidere i popoli” e da Marcello Veneziani come un “colonialismo dal basso” e ancora una “minaccia” per Roger Scruton, intervistato dal Foglio. Senza dimenticare l’aperta ostilità dimostrata verso gli organismi terzi (donde l’uscita dall’OMS) che evidenzia il desiderio di recuperare spazi di sovranità a detrimento di vincoli e regolamenti che gli Stati Uniti hanno contribuito a forgiare (almeno formalmente) ma che per la neonata guerra fredda con la Russia e gli attriti con la Cina risultano degli impacci secondo la Realpolitik americana di nuovo corso. 
Sbeffeggiare l’Onurimbeccare la Ue alzando pilatescamente le mani sull’Ucraina e il suo destino dopo che il suo paese ha fatto una guerra per procura con la Russia, minacciare di disancorarsi dall’eurozona lasciandola al suo destino dopo averla sobillata contro la Russia non sono follie di un malato di mente come ci abituano letture giornalistiche superficiali, ma sintomi di un impero-isola (schmittianamente parlando) pachidermico in fase declinante che deve controbattere con ogni mezzo, anche a costo di destrutturare il setting di regole che avevano sostenuto (pro-forma) nell’American century. Nel corso dell’Assemblea cadono allora molte maschere e a nulla valgono le proteste del presidente brasiliano Lula e della presidente della Commissione Europea Von Der Layen, chiaramente non nella posizione di trattare alcunché con Trump che, spavaldamente, può permettersi di insultare quelle istituzioni che rappresenterebbero in teoria un argine alla politica di potenza.
Tra gli ospiti di rilievo fa capolino un ex tagliagole di al-Qaeda miracolato dalla Turchia e dagli States come neopresidente siriano, mentre da più parti si allungano ombre sul nuovo corso della politica siriana e si parla di violenze ed esecuzioni ai danni di minoranze delle sue milizie che hanno fatto seguito alla detronizzazione di Assad orchestrata dagli occidentali con l’ausilio di una rivoluzione colorata prêt-à-porter e di bugie sui bombardamenti ai civili. In questo senso si verifica una stridente contraddizione tra la propaganda di regime che vuole l’Occidente come un giardino assediato dalla barbarie (nelle parole di Joseph Borrell), autoassolvendosi dalle proprie responsabilità, e il declino incombente di quelle forme politico-economiche che ne hanno segnato il successo al prezzo di massiccia violenza organizzata, come scriveva il politologo Samuel P. Huntington. Tornano così alla ribalta le contraddizioni tra i valori esibiti e sbandierati dalla civiltà liberale e la loro genealogia umana troppo umana, che affonda le radici più nascoste nel genocidio, nella violenza sistematica e nella crescita della diseguaglianza (quei principi d’altronde andavano bene per pochi), come rilevato dal marxista Domenico Losurdo in una monografia del 2005 che ne faceva un’utile controstoria rovesciando i pregiudizi.
Sempre sullo stesso tenore il filosofo sloveno Slavoj Zizek commentava in “Contro i diritti umani” del 2005 che l’umanitarismo di facciata cardine delle potenze occidentali tradisse imperialismo culturale e mirasse surrettiziamente alla satanizzazione dell’avversario neutralizzando il conflitto che è il sale della politica (come già rifletteva Carl Schmitt). Come scritto dall’analista geopolitico di Limes Alessandro Aresu, nella sua ultima fatica “La Cina ha vinto”, gli occidentali stanno suicidandosi sottovalutando i loro competitor e dando mostra della loro divisione a fronte di paesi in ascesa sempre più avanzati sul piano tecnologico-industriale, con picchi nella ricerca scientifica e ormai pronti a rivalersi del “secolo dell’umiliazione” cinese. In sintonia con queste valutazioni, Carlo Formenti parlava già ne “Il Capitale vede rosso” del 2020 di una reazione neomaccartista a partire dalla crisi interna del superimperialismo statunitense tesa al sabotaggio preventivo di potenze alternative al proprio assetto economico-politico per sfuggire, potremmo aggiungere noi, alla presa della “trappola di Tucidide”. 
Il terrore di affondare nella competizione commerciale e delle tecnologie spingerebbe dunque ad alzare la posta della sfida egemonica tra i contendenti dapprima imponendo dazi (nel primo mandato Trump), cercando poi di liberare il campo da altri rivali (provando a impantanare la federazione russa in un conflitto in cui versa risorse e uomini e lasciando campo libero a Israele per indebolire l’Iran) per innocuizzare la superpotenza asiatica ad ora inibita dal controllo del Mar Cinese grazie alla presenza di Taiwan e ai disegni già all’epoca Obama di una Nato asiatica anti-cinese. Come sottolineato dalle analisi del marxista eretico Giovanni Arrighi, i cicli egemonici (a trazione genovese, olandese, britannica, statunitense) di accumulazione economica dall’età moderna ad oggi si caratterizzano per fasi di espansione e contrazione che culminano in una fase speculativa che annuncia il fatale cambio di passo: considerando che la Cina è il centro manifatturiero mondiale non è difficile capire dove si guarderà in futuro. In mezzo, i paesi capitalisti opulenti del Nord del mondo destinati ad essere sbalzati via mentre il baricentro degli equilibri geopolitici si sposterà da Ovest ad Est, una translatio imperii analoga per impatto al dissesto che seguì lo spostamento dell’asse della politica mondiale dalla Grecia a Roma, frantumando vecchie alleanze e lasciando nella propria scia quello che rimane delle forze occidentali costrette al ridimensionamento.
Giunto alla fine della propria parabola, svuotato delle autogiustificazioni morali invocate a sua difesa per perpetuare l’illusione di controllo del resto del mondo con le proprie narrative e miti (vedesi il presidente di Israele che parla a scena vuota benché protetto nelle sue politiche sterministe dall’alleato a stelle e strisce) l’Occidente trapassa facendo autodafé, consegnandosi alla deriva etnocentrica denunciata dal medievista Franco Cardini, assolutizzando i suoi modelli e autodistruggendosi cercando di imporli al resto del pianeta. La fede universalistica occidentalista sintetizzata dalla cultura ebraico-cristiana e dalla religione tecnoscientifica capitalistica si rovescia allora in un “pluriverso (per riprendere con Serge Latouche un’espressione del teologo Raimon Panikkar) di civiltà in armonia rispondenti a ritmi diversi, dando vita ad un multilateralismo policentrico fondato su quella che l’analista Fabio Massimo Parenti definisce “la via cinese caratterizzata da una rinuncia pragmatica e anti-ideologica a credersi gli unici depositari dei valori guida per i popoli che abitano il mondo, improntando la politica estera alla cooperazione pacifica. Spezzandosi al suolo, scaduto l’autunno della civiltà nichilista euroamericana hegelianamente lo Spirito del mondo andrà a inseguire la sua traiettoria altrove spalancando altre epoche e disegnando nuovi sentieri da percorrere per l’umanità del futuro.

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