Nel suo discorso alla nazione Vladimir Putin ha usato l’intero armamentario della retorica nazionalista per cercare di nascondere l’errore gravissimo che ha compiuto e il vicolo cieco nel quale si è cacciato. È proprio vero che l’orgoglio obnubila e spinge verso errori sempre più gravi, rendendo prigionieri di una spirale da cui diventa sempre più difficile tornare indietro. Un anno fa, quando l’esercito russo ha invaso il territorio ucraino abbiamo avuto tutti la sensazione di assistere impotenti a qualcosa di anacronistico. Un’azione bellica tradizionale, portata avanti con la fanteria, i carri armati, le trincee, le bombe nel cuore dell’Europa del XXI secolo. Una sensazione non priva di ragioni: con la sua aggressione è come se Putin avesse cercato di riportare indietro le lancette della storia, a un mondo dove a contare è solo il “nomos della terra”, cioè la legge del confine fisico. Che divide gli uni dagli altri, gli amici dai nemici, il bene dal male. Un retaggio del passato che mal si concilia col punto della storia in cui pensavamo di essere arrivati.
Di fronte alla protervia russa, l’istinto della libertà ha spinto gli ucraini a reagire, aldilà delle aspettative di molti. E bene ha fatto e fa l’Occidente a stare accanto all’Ucraina. Purtroppo, a un anno di distanza, dobbiamo constatare che siamo ancora fermi lì. Nulla è cambiato. Anzi le cose sono solo peggiorate. E mentre è bene non escludere che la soluzione possa essere più vicina di quanto immaginiamo, occorre continuare a ragionare sulle conseguenze che l’errore di Putin – aldilà delle sue intenzioni – determina sul piano storico. L’incanto della globalizzazione degli anni Novanta del Novecento e dei primi anni Duemila è definitivamente infranto. Non si potrà tornare indietro. Negli anni Novanta ci fu un lungo dibattito tra le tesi di Francis Fukuyama (la fine della storia) che prevedeva il progressivo diffondersi del modello liberaldemocratico al di là dell’Occidente, e quelle opposte di Samuel Huntington, che vedeva profilarsi lo scontro di civiltà.
Secondo Huntington l’Occidente deve rendersi conto di essere una fra le civiltà e non la civiltà, e di conseguenza abbandonare il sogno illusorio di una civiltà universale in formazione basata su democrazia e diritti umani, che quindi ha come obiettivo politico principale quello di difendere i propri confini, come condizione “immunitaria” per salvaguardare la propria identità e i propri valori. Che non sono, né prevedibilmente saranno, universalmente condivisi. Una strategia che, nella prospettiva di nuove forme di isolazionismo, non esclude la possibilità del conflitto armato.
Ora il rischio che alla semplificazione di Fukuyama – la globalizzazione omogenea neoliberale – segua la semplificazione di Huntington – lo scontro di civiltà – è molto concreto. Come l’idea di una globalizzazione lineare e progressiva non ha retto il peso della storia (sconfessando gli argomenti sbandierati ai quattro venti, anni fa, sull’«esportazione della democrazia»), così l’idea di un apocalittico scontro di civiltà tra democrazie e autocrazie va rifuggita con tutte le nostre forze. Nel sostenere l’Ucraina, occorre pensare e sviluppare un’idea diversa di futuro. Un’idea più consona allo spirito democratico di cui ci facciamo paladini.
Huntington ha ragione su un punto, che si è dato troppo facilmente per risolto nella vulgata della globalizzazione neoliberale: la modernizzazione, cioè l’adozione da parte di altre culture di elementi tipici della modernità occidentale (come il mercato e la tecnologia), può avvenire senza comportare anche lo sviluppo della democrazia e delle libertà personali. Può darsi che questa evoluzione segua nel lungo termine, ma non è all’ordine del giorno nel breve-medio termine.
E dire questo non porta alla conclusione che l’unico futuro che ci aspetta sia lo scontro di civiltà. Al di là delle due posizioni polarizzate – quella di Fukuyama e quella di Huntington – esiste la via che le democrazie possono e devono perseguire: e cioè lavorare per potenziare la logica della convivenza e della collaborazione a livello planetario. In un contesto globale multiculturale, ma sempre più interdipendente, promuovere la democrazia significa far vincere i suoi valori come criteri regolativi dei rapporti internazionali. Nella speranza che, piano piano, tali valori siano in grado di trasformare anche le culture diverse da quella occidentale.
Fermo restando che le sfide del Ventunesimo secolo comportano una maturazione anche interna della nostra visione del mondo: per rimanere vitali, le istituzioni e lo spirito democratico vanno di continuo rinnovati contrastando le derive nichiliste che mai come in questo momento li minacciano.