L’accelerazionismo frena, di Andrea Falco Profili

Non c’è stata fanfara, ma questa volta non c’è stato neppure silenzio. Un post laconico, sì: ringraziamento al Capo, fedeltà alla missione DOGE. Ma poi in rapida successione sono arrivate le bordate: una interminabile lite su X che lascia poco spazio all’interpretazione. Così Elon Musk abbandona il teatro del potere, lasciandoci una mina. Donald Trump allude al tagliare i fondi alle sue imprese, Musk lascia cadere la spada di Damocle: “Il Presidente è negli Epstein Files”.
Il suo ruolo – “special government employee”, una definizione che molti osservatori hanno conosciuto solo grazie al suo incarico – era limitato per legge a 130 giorni l’anno. Scadenza tecnica, dunque – ma la tempistica seppur casuale non si rivela neutra. Proprio mentre il “grande disegno legislativo” trumpiano – la Big Beautiful Bill – mostrava la sua natura divisiva e caotica, Musk si sfila con uno strappo, lasciando alle sue spalle solo macerie di quello che doveva essere il nuovo volto della governance americana. È stato un anno delirante anche per i suoi standard. Dopo il fallito attentato contro Trump, Musk era divenuto qualcosa di simile a un vicepresidente ombra: emissario della razionalità algoritmica nel caos populista. DOGEacronimo surrealista per una crociata tecnocratica – era la sua creatura: una macchina da guerra contro lo Stato stesso, programmata per tagliare e ricostruire. In teoria.
Ma la realtà federale è complessa. È fatta di melma, inerzia e protocolli interminabili. Elon Musk, abituato ad agire come demiurgo nelle sue aziende, si è trovato incastrato in un dispositivo labirintico: l’amministrazione americana. Un’idra elusiva ed immune alla volontà. I numeri parlano da soli: DOGE doveva tagliare migliaia di miliardi, ne ha raschiati a malapena 175, cifra ad ogni modo incerta. L’illusione di poter “ottimizzare” il Leviatano si è schiantata contro una realtà che non era stata preventivata: la spesa pubblica americana è ancorata a meccanismi automatici, assegni mensili e vecchie promesse elettorali. Il federalismo non si smonta facilmente. Eppure, Musk non è solo un tecnocrate, è stato un intermediario. Il suo flirt con Trump ha sempre avuto qualcosa di contingente, forse strumentaleI rapporti con il mondo tecnologico proseguono, così come il Project Stargate o i corteggiamenti con Palantir Technologies volti a integrare e ottimizzare i sistemi di sorveglianza del governo, settori della tecnica anche ostili a Musk.
Donald sogna muri e dazi, Elon invece Marte e auto senza pilota. L’attrito è puramente una divergenza di visione. Il giorno in cui il Presidente ha alzato le tariffe gridando “Liberation Day”, la frattura si è fatta visibile: Musk, ideologicamente figlio di Hayek, non poteva che digerire male l’economia della guerra doganale. Poi c’è il fronte delle università. Trump attacca il sapere organizzato; Musk ha bisogno di cervelli. Il gelo sui visti per studenti si tramuta così in un colpo al suo ecosistema industriale. Lo dice da anni: «C’è una grave carenza di ingegneri estremamente talentuosi e motivati in America». Ma il populismo odia le élite, anche quelle che costruiscono razzi. Il vero cortocircuito si è consumato nel cuore stesso della coalizione: tra i tecnocrati del DOGE e i populisti più puri del movimento MAGA. Da un lato, Musk e i suoi accoliti predicavano l’efficienza tecnologica, la deregolamentazione, l’ottimizzazione dei processi. Dall’altro, figure come Steve Bannon vedevano in questa tecnocrazia un tradimento dello spirito originario del movimento: una nuova forma di élite globalista mascherata da riformismo. Bannon non ha esitato a definire Musk un “oligarca parassita”, accusandolo di voler sostituire la sovranità popolare con il dominio delle big tech. Le tensioni sono esplose sul tema dei visti per lavoratori stranieri nel settore tecnologico. Musk, da sempre sostenitore dell’immigrazione di talenti, ha difeso il programma H-1B, essenziale per le sue aziende. Ma per i populisti MAGA, questo era un affronto ai lavoratori americani. La retorica anti-immigrazione si è scontrata con le esigenze del capitale tecnologico, e Musk si è trovato nel mirino di chi lo accusava di voler svendere l’America ai “coder stranieri”. Il culmine si è raggiunto quando Trump ha annunciato restrizioni ai visti per studenti e lavoratori stranieri, colpendo direttamente il bacino di talenti su cui Musk contava. La risposta del CEO è stata furiosa: ha denunciato la misura come un suicidio economico, un attacco alla competitivitià americana. Ma le sue parole sono cadute nel vuoto di un partito sempre più dominato dalle sue pulsioni nativiste. La frattura tra la visione espansivista e assimilazionista della Silicon Valley e il ripensamento interno della base repubblicana sembrava ormai insanabile.
Eppure, dopo le turbolenze iniziali, le acque sembravano essersi placate. Anche nella recente conferenza indetta allo Studio Ovale, il 30 maggio, Elon Musk ha sottolineato che avrebbe continuato ad essere “amico e consigliere” del Presidente Trump. Nonostante le divergenze su temi come i visti stranieri e le politiche fiscali, Musk e Trump hanno mantenuto una collaborazione stretta, con Musk che ha continuato a influenzare le politiche dell’amministrazione. Tuttavia, la riemersione di fratture all’interno del movimento MAGA non indicano tanto una crisi del movimento stesso, quanto piuttosto una crisi dell’opposizione. Con l’assenza di un’alternativa politica credibile e minacciosa, le tensioni interne, prima sopite per necessità strategiche, sono riemerse con forza. È la natura dei grandi movimenti e delle alleanze di scopo: i cristiani si perseguitarono tra ariani e niceni solo quando i pagani divennero troppo inconsistenti per essere un nemico credibile, allo stesso modo l’egemonia incontrastata del MAGA, il suo consenso trasversale nei settori dell’economia, dell’informazione e dell’intrattenimento – che nel first term furono molto più combattivi – ha innescato lotte intestine, dove le differenze ideologiche e personali si amplificano in assenza di un nemico esterno comune. I media parlano degli attacchi di Musk alla Bill, parlano delle fratture interne al movimento, il grande assente dalla narrazione sono i Dem Americani. Persino gli oppositori della mossa vedono nei dissidenti del GOP piuttosto che nei democratici un’opposizione più consistente e in grado di farla arenare.
La separazione arriva lasciando fiamme, caos e sfaldamento. Con le vicendevoli contestazioni sui social, i toni sono aumentati in un crescendo costante, parlando prima di delusione, poi di malafede, infine le minacce e poi la più grande ingiuria, che compromette il Presidente, lo aliena dalla sua base – di natura diffidente di quello Stato profondo a cui lo legano le accuse lanciate da Musk – e rende ostica ogni possibilità di riconciliazione tra Musk e Trump. Difficile vedere Elon tra le braccia dell’opposizione. Troppo allergico alle liturgie identitarie, troppo compromesso con la tecnosfera conservatrice. E poi c’è X, il suo arsenale mediatico: una leva su cui nessuno a destra può rinunciare. La verità è che Musk e Trump – per quanto inviperiti – condividono un nemico: la burocrazia. Entrambi parlano di distruggere ciò che altri vogliono semplicemente riformare. DOGE è stata solo una delle possibili implementazioni di una strategia e una visione politica che non possono esaurirsi per nessuno dei due. Il congedo ha mostrato tutta la sua ambivalenza. Trump aveva salutato Musk affermando che “sarà sempre con noi, aiutandoci fino in fondo”, mentre nei primi quattro mesi dell’amministrazione Trump, almeno 121.000 dipendenti federali sono stati licenziati o presi di mira per licenziamenti, segno tangibile di una rivoluzione conservatrice che ha saputo mordere. La rivoluzione del DOGE, dunque, non può essere derubricata a fallimento, si tratta delle contraddizioni inevitabili che affliggono ogni movimento che predica disruption, quando è costretto ad istituzionalizzarsi. Musk aveva una visione pura di ciò che andava fatto, Trump da politico ha parlato la lingua del compromesso, e la frizione ha reso il tycoon sudafricano il più grande detonatore della destra americana.

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