La voglia di disfare l’Europa, di Carlo Verdelli

Un risultato certo Donald Trump l’ha ottenuto. E non è, come aveva baldanzosamente promesso, quello di far finire in un paio di giorni le due più importanti guerre in corso. Anzi, è stato protagonista attivo dell’inizio di una terza, l’attacco di Israele all’Iran, con l’impiego di bombe americane che a suo dire hanno avuto l’effetto di quelle su Hiroshima e Nagasaki e hanno chiuso il conflitto.
 Il Nobel per la pace, onore spettato a un suo predecessore come Barack Obama e a cui anche lui arditamente aspira, sembrerebbe precluso; anche se al momento ogni previsione di buon senso sembra destinata a infrangersi di fronte a un tempo di ferro e di fuoco che la nuova presidenza Usa ha contribuito ad alimentare piuttosto che a placare. No, il secondo Trump non passerà alla Storia come un risolutore di conflitti ma può già con legittimità intestarsi un altro tipo di svolta, dagli esiti al momento imprevedibili: la frantumazione dell’Europa, il vecchio continente delle democrazie, e la sua conseguente perdita di centralità in qualsiasi scelta internazionale.
Come un conquistatore che intuisce le debolezze di un’Unione tenuta insieme soltanto da una moneta e da valori sempre meno condivisi, il padrone della Casa Bianca, perché è da padrone che si atteggia e si comporta, Donald Trump ha cominciato a fiaccare la Ue con una raffica di colpi che hanno lasciato segni evidenti e a cui non è stata data alcun tipo di risposta che segnasse un confine non valicabile. Il governo di Bruxelles e Strasburgo ha incassato in rapida successione la doccia scozzese dell’imposizione di feroci dazi commerciali, quella del 5 per cento obbligatorio del Pil per il riarmo della Nato (a tutto vantaggio dell’industria bellica statunitense che diventerebbe il nostro principale fornitore), il sostanziale abbandono nella difesa della causa ucraina, l’umiliazione di esser tenuti all’oscuro che gli Stati Uniti stavano per attaccare Teheran, salvo la cortesia ben calcolata di avvertire un attimo prima Francia, Germania e Gran Bretagna, che non è nemmeno parte dei 27 Paesi membri. Fino alla sera prima dell’offensiva, il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani scongiurava con risolutezza anche l’ipotesi. Ursula von der Leyen, il più alto rappresentante del governo sovranazionale che ci siamo dati, non pervenuta.
L’ultimo affondo, ultimo in ordine di tempo, è il sostegno conclamato di Trump al presidente israeliano Netanyahu, il cui processo per tre diversi capi di imputazione (corruzione, frode, abuso di fiducia) «dovrebbe essere annullato immediatamente, oppure dovrebbe essere concessa la grazia a un grande eroe che ha fatto così tanto per il suo Paese». Questo mentre, pur tra tante tensioni e divisioni, proprio l’Europa sta cercando una mediazione tra sospendere o rivedere gli accordi con Tel Aviv alla luce del quotidiano e ormai insostenibile massacro di Gaza, spingendo per un cessate il fuoco e per una ripresa massiccia degli aiuti alimentari a una popolazione, quella palestinese, oltre i limiti dello sfinimento.
E mentre il Consiglio dal Belgio tesse faticosamente la tela quasi fosse Penelope, Trump non aspetta neanche la notte per disfarla. 
Non era facile ottenere un risultato del genere in così poco tempo, neanche sei mesi. Missione comunque compiuta: quella in corso nei nostri confronti è una mutazione tanto violenta quanto forse imprevista. Da alleato strategico, come lo è stata per 80 anni, la Ue è stata prestamente declassata da Washington a un insieme di Stati con i quali trattare alle migliori condizioni possibili per gli Stati Uniti, bullizzando e isolando i più restii, concedendo distratto ascolto a quanti, come l’Italia, ancora credono che sia possibile ristabilire rapporti civili, se non proprio amichevoli. Ma l’unico rapporto che l’Amministrazione Usa sembra concepire è quello tra capo e subalterni. E la qualità più richiesta agli eventuali partner non è l’affidabilità o la condivisione di linee strategiche ma l’obbedienza cieca. Lo stesso tipo di obbedienza che si pretende in patria, e chi si oppone paga conti altissimi, come è successo all’università di Harvard, considerata ostile, costretta a scendere in trincea pur di garantirsi la sopravvivenza. Oppure affidarsi alla Corte suprema per scongiurare, almeno momentaneamente, il taglio dei finanziamenti pubblici alle cliniche dove è ancora possibile l’aborto gratuito, smantellando l’assicurazione pubblica MedicAid e penalizzando anche i pazienti in attesa di screening oncologici. 
Passare sotto il giogo, come era uso tra i romani del grande Impero verso gli avversari sconfitti. Non si fanno prigionieri, si svuotano di senso e peso gli organismi internazionali nati nel secondo dopoguerra a tutela dei diritti primari. In compenso si incassano con esibita soddisfazione i complimenti di Putinho un grande rispetto per Trump»), che per paradosso rappresenterebbe la grande minaccia da cui l’Europa dovrebbe armarsi fino ai denti per non farsi invadere.
Elencando su questo giornale alcune delle vittorie già ottenute nei nostri confronti, dall’ostacolare le misure di Bruxelles contro gli abusi dei colossi della Silicon Valley al sabotaggio della Global Minimum Tax (G20, 2021) per frenare l’elusione fiscale delle multinazionali, Federico Fubini ha centrato il punto: non trovando reazioni significative alle sue incursioni, Trump avanza e con ogni probabilità raddoppierà, triplicherà. La strategia di pacificarlo assecondandolo non sta funzionando. Se non si avverte la portata dell’allarme, se si continua a procedere in ordine sparso di fronte a un’offensiva che mira a disunire l’Unione, l’Europa si condannerà a tornare ad essere un’espressione geografica. Il rischio della sottomissione è già dentro i nostri confini, a divorare veloce un’eredità e una grandezza economica e anche politica che meriterebbero altra dignità di tutela, molto di più del 5 per cento che ci viene richiesto per difenderci dall’arrivo dei tartari.

corriere.it/opinioni/25_giugno_29/la-voglia-di-disfare-l-europa-eba531b1-e309-4521-b40b-a812b176dxlk.shtml

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