Prima ancora che con l’annoso dibattito sul 41-bis (noto come “carcere duro”), la vicenda di Alfredo Cospito ha a che vedere con altre due questioni, non meno rilevanti quando si parla di diritto e di esecuzione penale: la proporzionalità delle misure afflittive rispetto ai fatti oggetto di processo o di sentenza; il diritto alla salute, che la Costituzione riconosce a tutti, anche a chi è ristretto in carcere. E non rileva, ovviamente, che il peggioramento delle condizioni di salute sia causato volontariamente, nel caso di Cospito da uno sciopero della fame che va avanti da oltre tre mesi.
Altrimenti si dovrebbero negare le cure anche a chi tenta il suicidio oppure mette a rischio la propria vita con comportamenti incoscienti. È perciò da salutare con sollievo la decisione presa ieri dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di seguire le indicazioni delle autorità sanitarie sarde e di trasferire il militante anarchico dal carcere di Sassari a quello milanese di Opera, dove potrà essere ricoverato e curato.
Sempre che si lasci curare al meglio (il suo avvocato ha però già annunciato che «proseguirà lo sciopero della fame») e che il suo fisico non sia troppo provato dal lungo digiuno. Questo per quanto attiene alla tutela costituzionale della salute. Ma arriviamo così al nodo della proporzionalità. In primo luogo c’è da chiedersi perché si è lasciata trascinare una situazione del genere per più di cento giorni senza cercare una via d’uscita, alimentando anzi un braccio di ferro che è divenuto occasione per azioni violente in Italia e all’estero, rivendicate da frange anarco-insurrezionaliste. Frange che potrebbero perfino alzare il tiro se malauguratamente dovessero avere un “caduto” da vendicare.
Si obietterà, non senza ragione: lo Stato non può lasciarsi ricattare, altrimenti altri seguirebbero la stessa (pur straziante) strada per ottenere ciò che vogliono o per alleggerire la propria detenzione. La risposta è che forse non bisognava arrivare così avanti, potendo avviare una riflessione sull’applicazione del 41-bis a questo caso. Fermo restando che i delitti di cui è accusato (e in un caso condannato in via definitiva) Cospito sono gravi ed esigono rigore nell’applicazione della pena.
La risposta, insomma, è che lo Stato democratico è più forte di quanti lo combattono. È stato detto (e per fortuna dimostrato) per la lotta alle mafie – che, malgrado ciò, restano forti e minacciose – e per la battaglia contro i terrorismi rosso e nero, anche quando tutto poteva sembrare perduto e fu necessario rivolgersi a un eroe civile come il generale e prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Stagioni di piombo, sangue e dolore sono state il terreno di coltura del secondo comma dell’articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario: quella norma, infatti, prevede la sospensione del «trattamento» (ovvero tutte le attività che dovrebbero agevolare il recupero sociale del detenuto, in applicazione dell’articolo 27 della Costituzione) «quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica».
Cioè quando si pensa che la persona reclusa per reati gravissimi (appunto mafia, terrorismo, “eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza”) sia in condizione di tenere, anche dalla prigione, contatti pericolosi con la propria organizzazione criminale. Il risultato è l’isolamento pressoché totale del detenuto. Sembra perfino inutile osservare (ma evidentemente non lo è) che uno strumento di questo tipo dovrebbe rappresentare l’extrema ratio.
Eppure l’ultimo rapporto di Antigone riferisce di 759 detenuti al 41-bis. Ma lo Stato democratico è, dovrebbe essere, molto di più del suo pur necessario apparato repressivo e carcerario. Dovrebbe essere legalità e umanità, conciliazione del rispetto dei diritti con l’osservanza dei doveri. E ha la responsabilità di dimostrarlo. Anche, forse soprattutto, a chi nello Stato non crede.
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