La pax trumpiana e lo spirito tecnocratico, di Riccardo Cristiano

Quando ho letto il piano di pace di Trump non ho ritenuto che la mia priorità fosse soffermarmi sui tanti aspetti necessariamente ambigui, indispensabili a tenere insieme la narrativa araba e quella israeliana in un testo unico, che componga ciò che è molto lontano. Altri avrebbero potuto indicare le criticità meglio di me. Certo è evidente che il piano è solo su Gaza, ed escludere la Cisgiordania, ad esempio, è stato un passo indispensabile per riuscire a partireMa non basterà per arrivare alla pace. Un passo difficile, provvisorio, ma indispensabile perché a Gaza occorre, occorrerebbe, liberare gli ostaggi, porre termine ai bombardamenti, far entrare gli aiuti umanitari.
Facile notare che il piano lo prevede non più tramite la Gaza Humanitarian Foundation, di cui si ammette dunque il totale fallimento, ma tramite l’ONU, di cui si ammette dunque l’indispensabilità. È questa la priorità di oggi, il piano ci riuscirebbe, se Hamas accetterà, e questo, come ha detto Leone XIV, lo rende un piano «realista»: a mio avviso nel senso che fa i conti con la realtà che richiede di tagliare i nodi che hanno legato queste urgenze non procrastinabili.
Del piano hanno richiamato la mia attenzione i punti 9 e 10. Del punto 9 sottolineo in particolare questo passaggio:
«Gaza sarà governata da un comitato palestinese tecnocratico e apolitico, responsabile della gestione quotidiana dei servizi pubblici e delle municipalità per la popolazione di Gaza. Questo comitato sarà composto da palestinesi qualificati ed esperti internazionali, con la supervisione e il controllo di un nuovo organismo internazionale di transizione, il “Consiglio di pace”, che sarà guidato e presieduto dal presidente Donald J. Trump, con altri membri e capi di Stato da annunciare, tra cui l’ex primo ministro Tony Blair».
Dunque un’autorità apolitica palestinese ma con la presenza di stranieri e un board di supervisori esterni, i cui compiti si indicano al punto 10:
«Un piano di sviluppo economico di Trump per ricostruire e rilanciare Gaza sarà elaborato convocando un gruppo di esperti che hanno contribuito alla nascita di alcune delle fiorenti città moderne del Medio Oriente. Molte proposte di investimento ponderate e idee di sviluppo entusiasmanti sono state elaborate da gruppi internazionali ben intenzionati e saranno prese in considerazione per sintetizzare i quadri di sicurezza e governance al fine di attrarre e facilitare questi investimenti che creeranno posti di lavoro, opportunità e speranza per il futuro di Gaza».
Gaza è in condizioni apocalittiche. Poteva trovare il modo di autogovernarsi? Un errore commesso sovente dall’ONU, ad esempio in Libia a mio avviso, è stato quello di scegliere il sistema dell’institution support e non quello dell’institution building. Nel primo si forniscono gli strumenti per immaginare l’architettura del proprio sistema, vari modelli, tra i quali scegliere il migliore, il più congeniale, e poi procedere. Nel secondo invece si interviene direttamente, sostenendo e rafforzando le istituzioni locali, affidando dunque all’Alto Rappresentante dell’ONU poteri operativi, e fondi. Forse nel caso di Gaza si poteva lecitamente anche andare oltre, e prevedere unAlta Rappresentanza. Ma bisogna stare attenti a evitare confusioni con precedenti storici (e forse la composizione del Consiglio per la Pace aiuterà).
Bisogna tener presente l’esperienza dei Mandati affidati a francesi e britannici ai tempi del disfacimento dell’impero ottomano. Le potenze mandatarie erano incaricate dalla Società delle nazioni di creare le condizioni per dar vita a stati moderni che poi sarebbero divenuti sovrani, ma pochi dicono che lo fecero, pensarono ad un sistema coloniale. L’eccezionale gravità del momento potrebbe rendere lecito un vero board di alti rappresentanti scelti dall’ONU. Questi dovrebbero lavorare con personalità locali riconosciute per gli affari civili, in attesa, come previsto, di sviluppi che consentano all’autorità palestinese di riformarsi e assumere funzioni di autorità civile.
Il piano, invece, al punto 10, ci dice che non il Presidente del Consiglio di Pace, non il Presidente degli Stati Uniti, ma Trump, con chi ha già realizzato le avveniristiche città del Golfo definirà le direttrici dello sviluppo da scegliere. Usare in un testo come questo il termine «Trump» è di certo almeno inusuale. E cosa spiega la solitaria citazione del possibile consigliere Tony Blair?
L’indirizzo prescelto ha comunque un modello dichiarato: Dubai e forse la città avveniristica di Neom, in via di difficile realizzazione in Arabia Saudita. Dubai a molti piace, sebbene si sappia di molte cose che non piacciono, rilevanti per i diritti. Il problema è il coinvolgimento, o il pensarsi spettatori, di scelte di sviluppo compiute da altri.
La strada indicata appare preferibile ai tunnel di Hamas, ma assunta in nome di una visione? Ecco allora che mi è tornata in mente l’esortazione apostolica di papa Francesco, Laudate Deum, lì dove spiega cosa sia il «paradigma tecnocratico».
«In sostanza, consiste nel pensare come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia. Come conseguenza logica, da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia.
Negli ultimi anni abbiamo potuto confermare questa diagnosi, assistendo al tempo stesso a un nuovo avanzamento di tale paradigma. L’intelligenza artificiale e i recenti sviluppi tecnologici si basano sull’idea di un essere umano senza limiti, le cui capacità e possibilità si potrebbero estendere all’infinito grazie alla tecnologia.
Così, il paradigma tecnocratico si nutre mostruosamente di sé stesso. […] Fa venire i brividi rendersi conto che le capacità ampliate dalla tecnologia danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero. Mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo. […] In quali mani sta e in quali può giungere tanto potere? È terribilmente rischioso che esso risieda in una piccola parte dell’umanità».
Francesco ha esposto la sua idea di paradigma tecnocratico riferendosi alla questione dei mutamenti climatici e della necessaria difesa dell’ambiente, ma a me pare che il discorso possa valere anche per l’uomo, l’umanità e un nuovo modo di concepirne i modi di governo. Nell’ottica che mi sembra sottostare al ai punti 9 e 10 Gaza sembra diventare un’aziendail Presidente del Consiglio di Pace una sorta di Chief Executive Officer, che insieme ai suoi consiglieri ne studia e decide le linee di sviluppo, come se gli abitanti non avessero una soggettività.
Qui forse si intravedono elementi non estranei all’ottica degli emiri, degli sceicchi, dei sultani del Golfo, che vogliono lo sviluppo dei propri Paesi, ma collegandosi al famoso detto che si usa per presentare, bene, il dispotismo illuminato: «Tutto per il popolo, niente con il popolo». Non so se il dispotismo illuminato rientri nei loro orizzonti, il loro mondo ha una storia diversa, ma non credo che occorra cedere a rappresentazioni bieche: questi monarchi vogliono lo sviluppo per Gaza come per i loro Paesi, intendono attirare capitali, investimenti, per progetti che noi possiamo apprezzare o no, ma che ritengono funzionali anche al benessere dei loro sudditi e per riuscirci sanno che occorre stabilità: ma questi investimenti non saranno sufficienti per le loro intenzioni se il contesto bellico li renderà rischiosi per gli investitori stranieri e se le sofferenze proseguiranno ad agitare le coscienze.
Sviluppo, come è noto, non è sinonimo di progresso; secondo Pier Paolo Pasolini lo sviluppo segue la logica della tecnica e del consumo, il progresso è una questione di giustizia e di risposte ai bisogni reali; forse il loro orizzonte oggi non è incompatibile con quello del paradigma tecnocratico. È questo, forse che li avvicina a Trump: il suo «Make America Great Again» è compatibile con il loro «Make Arabia Great Again». Ma Gaza non è Dubai, Gaza è l’antica porta del Levante. Nella sua storia, per fare un solo esempio testimoniato da splendidi affreschi, alcuni scoperti anche poco prima di questa guerra, hanno svolto un ruolo importantissimo i bizantini. E qui interviene un altro aspetto non del documento, ma del discorso con cui Donald Trump ha illustrato il suo piano di pace.
La pax trumpiana, per come l’ha presentata lui, porrebbe fine a 2/3 mila anni di guerra, una lunghissima epoca buia al termine della quale arriva, alla buon’ora, questa nuova luce. Diverso è lo stato lo stile usato da Bill Clinton nel 1993, quando affiancò Rabin, Peres e Arafat nella storica firma di Washington. Non rimosse Camp David, il trattato di pace firmato tanti anni prima da Begin e Sadat. Anzi:
«Come tutti sappiamo, la devozione a quella terra è stata anche fonte di conflitti e spargimenti di sangue per troppo tempo. Nel corso di questo secolo, l’astio tra il popolo palestinese e quello ebraico ha privato l’intera regione delle sue risorse, del suo potenziale e di troppi dei suoi figli e delle sue figlie. La terra è stata così martoriata dalla guerra e dall’odio che le rivendicazioni contrastanti della storia si sono incise così profondamente nell’animo dei combattenti che molti credevano che il passato avrebbe sempre avuto il sopravvento. Poi, 14 anni fa, il passato ha cominciato a cedere il passo quando in questo luogo e su questo tavolo tre uomini di grande lungimiranza hanno firmato gli Accordi di Camp David. Oggi onoriamo la memoria di Menachem Begin e Anwar Sadat e rendiamo omaggio alla saggia leadership del presidente Jimmy Carter».
Ricordando la storia, Clinton non ha inteso sminuire se stesso, ma ricordare le vittime e chi ha combattuto dentro di sé e con se stesso per rendere possibili nuovi inizi. E infatti aggiunse:
«Da quando Harry Truman riconobbe per la prima volta Israele, ogni presidente americano, democratico e repubblicano, ha lavorato per la pace tra Israele e i suoi vicini. Ora gli sforzi di tutti coloro che hanno lavorato prima di noi ci portano a questo momento, un momento in cui osiamo promettere ciò che per così tanto tempo è sembrato difficile persino immaginare: che la sicurezza del popolo israeliano sarà conciliata con le speranze del popolo palestinese e che ci sarà più sicurezza e più speranza per tutti».
Non credo che Trump abbia usato un altro linguaggio per vanagloria sua o per compiacere i suoi odierni interlocutori, ai quali ha riconosciuto grandi qualità. Potrebbe aver voluto dire che cominciava proprio l’epoca del nuovo paradigma. E questo pure potrebbe offrire una via percorribile ai suoi interlocutori del Golfo, che non cercano solo commesse, come qualcuno dice, ma anche una risposta forte a visioni altrui.
Come è noto, i leader del Golfo vivono nella preoccupazione di una sfida esistenziale, il fondamentalismo islamico. Questo pensiero si richiama a una nostalgia, ben espressa dal termine «salafismo», cioè coloro che seguono alla lettera gli insegnamenti degli «Al-Salaf al Salih», gli antenati devoti, ovvero i contemporanei del profeta Maometto. La nostalgia delle origini, della purezza, letteralmente tale. È poco ricordato che il più estremista dei salafiti, il capo dell’ISIS, che si fece chiamare Abu Bakr al-Baghdadi, scelse questo nome, cioè Abu Bakr di Baghdad, intendendo così ricollegare se stesso al primo Califfo che succedette a Maometto, Abu Bakr appunto, per dire che lui cancellava la storia islamica, tornando lì dove si era, alle origini dell’Islam, assoluto, letterale e puro.
Questa idea mi ha fatto pensare al viaggio come lo intendeva Ulisse, grazie ad alcuni passaggi del volume Fiamma nella notte di padre Antonio Spadaro. Il viaggio di Ulisse, ha scritto «ha come scopo il “ritorno”. L’oblio del ritorno è il pericolo a cui Ulisse sottrasse i suoi compagni che, sedotti dal dolcissimo frutto del loro, avevano perso la volontà di ritornare». Il viaggio di Ulisse, osserva padre Spadaro, lo fa crescere nell’attesa di un ritorno a casa, mentre al Baghdadi a mio avviso cancella il viaggio, per tornare alla purezza, all’immodificabilità.
Un desiderio conosciuto anche da altri. Se la grande novità sopraggiunge con Enea, è chiaro che «il cristianesimo proietta l’uomo, pellegrino nel mondo, verso una dimensione ulteriore. […] Il futuro si proietta in avanti, la nostalgia si tramuta in desiderio e l’uomo si scopre pellegrino.» Citando Chatwin il discorso sul viaggio che fa padre Spadaro sorprende perché ci dice che per gli aborigeni australiani la parola Paese, o patria, è la stessa che usano per «strada», per i nomadi anche è così, visto che il loro sentiero collega i pascoli stagionali.
Questo cammino, per ciò che so, però è ciclico, non è una linea retta. Allora potrebbe essere lecito immaginare che i leader del Golfo, figli del deserto, abbiano bisogno di interrompere questo senso di nostalgia, di ritorno, ma potrebbero avere difficoltà a scegliere la Storia, a immaginare, come diceva sempre Francesco, «un popolo che cammina nella Storia».
Il paradigma tecnocratico di Trump potrebbe fissare per loro la novità che non gli chiede di «camminare nella Storia», ma di determinare il nuovo orizzonte, aperto alla felicità ma in virtù delle nuove opportunità che i tecnocrati offrono: concerti, svaghi, grandi eventi sportivi. È un modo per archiviare le derive del pensiero religioso senza rischiare che rientrino dalle finestre di riforme partecipative?
La sfida di rendere le loro società non più tribali non è semplice, non può essere giudicata da chi poco ne sa, come me. Ma il mondo arabo costiero ha un’altra storia. Il Levante, anche islamico, è stato Levante perché cosmopolita, quindi arabo, ma anche mediterraneo; e poi, come ha scritto l’arabo cristiano Samir Kassir, anche occidentalizzato.
Il modello Dubai ha già divorato il modello beirutino della «città giardino». Non credo sia l’unico per Gaza. Se si vuole integrare Israele nel sistema mediorientale, estendendo agli arabi della costa gli accordi di Abramo, sarebbe meglio scegliesse una via che lo riporti alla sua natura, porta del Levante, non prosieguo di una linea tecnocratica, quella dell’avveniristica Neom, la città lineare pensata nel deserto da bin Salman: 26.500 chilometri quadrati per la tecnologia e gli affari, completamente alimentata da energie rinnovabili, centro per l’innovazione nel campo delle biotecnologie, megalopoli, comunità di lusso con «porti turistici scintillanti», parchi a tema da record e il giardino più grande del mondo.
Sono questi i motivi per cui non ritengo questi gli spunti «interessanti» che papa Leone XIV ha visto nel testo degli accordi, al di là della sua parte realista, che è forte ed evidente. Il cammino possibile di un institution building lo riterrei ovviamente auspicabile e molto interessante, ma non lo colgo delineato nei punti citati. Pronto a ricredermi, ovviamente, nel caso che i fatti dimostrino una lettura macchiata da un eccessivo scetticismo. Forse allora il suo pensiero andava alla composizione di diverse agende in un tentativo di dichiarazione di principi. Forse è così e sarebbe comprensibile. Ma il punto sul paradigma tecnocratico credo meriti attenzione.

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